America
USA 2016, aspettando il dibattito repubblicano alla Reagan Library
I candidati alla nomination repubblicana scaldano i motori in vista del prossimo dibattito televisivo di mercoledì 16, organizzato dalla CNN presso la Ronald Reagan Library (in California). Come a Cleveland, anche stavolta saranno tenuti due confronti: quello pomeridiano, dedicato ai concorrenti inchiodati ai bassifondi della classifica dei sondaggi (Santorum, Jindal, Pataki e Graham); e quello serale, cui prenderanno parte i “pesi massimi” della corsa elettorale (Trump, Carson, Bush, Rubio, Walker, Kasich, Carly Fiorina, Huckabee, Cruz, Paul e Christie).
Vista la fluidità della situazione e la repentinità con cui mutano gli eventi, ogni tentativo di previsione a questo punto appare ben poco utile: vedremo se questo nuovo dibattito consoliderà l’ascesa dell’antipolitica (primariamente incarnata da Trump, Carson e Carly Fiorina) o se – al contrario – inaugurerà un’inversione di tendenza, a favore dei candidati più istituzionali (come Bush). Ciononostante, non è forse fuori luogo avanzare alcune considerazioni.
Innanzitutto – come detto – attenzione ai candidati antipolitici, decisamente in grande spolvero durante le ultime settimane: soprattutto Trump e Carson appaiono in testa in molti sondaggi, con un trend profondamente positivo. A ciò si aggiunga il successo in termini di pubblico che i loro eventi elettorali hanno raccolto in questi giorni. E attenzione in particolare a Carly Fiorina: l’unica “promossa” dal dibattito pomeridiano a quello serale, dopo la buona performance avuta a Cleveland, che le ha consentito una rapida ascesa (soprattutto in Iowa). Mercoledì sarà un buon banco di prova, per capire se si tratta di fuochi di paglia o di candidature consistenti.
Occhio poi a Jeb Bush. Dopo il grigiore espresso a Cleveland (con conseguente picchiata nei sondaggi), l’ex governatore della Florida ha disperatamente bisogno di riscattarsi, se non vuole definitivamente sprofondare ai margini della competizione elettorale. Dovrà abilmente combinare il proprio carattere istituzionale (da sempre suo cavallo di battaglia) con una verve il più possibile aperta, sfacciata e pop: dovrà, in altre parole, riuscire a contrastare efficacemente Trump, cercando di scrollarsi una volta per tutte di dosso l’immagine piatta di candidato formale ed esponente dell’establishment. Di certo non sarà facile: storicamente Jeb ha sempre sfondato nei confronti basati sul fattore della competenza istituzionale, crollando – al contrario – in quelli caratterizzati da polemica e teatralità: gli accadde nel 1994, allorché – durante la campagna elettorale per le elezioni governatoriali in Florida – venne in sede di dibattito letteralmente demolito dal democratico Lawton Chiles (cinico, sarcastico e dalla battuta venefica). L’atteggiamento “very polite” e vagamente irritato mostrato a Cleveland dovrà quindi lasciare il posto a una maggiore aggressività, se vorrà evitare di diventare il punchball di Trump.
Occhi puntati poi su Marco Rubio. Dopo l’ottima performance di Cleveland, il senatore della Florida ha mostrato un graduale ma progressivo recupero nei sondaggi, che potrebbe riuscire a consolidare e portare avanti: anche perché, almeno sulla carta, Rubio appare al momento il candidato più promettente. Non soltanto in forza della sua immagine giovane e innovativa, non soltanto per alcune felici scelte programmatiche, che potrebbero attirargli consensi trasversali, ma anche perché – grazie a tutto questo – è forse tra i pochi (se non l’unico) potenzialmente in grado di raccogliere voti tanto dall’ala moderata quanto dalle frange più radicali: l’unico, in altre parole, forse capace di neutralizzare alla radice l’anima populista dei Trump e dei Carson, mescolando abilmente tradizione e innovazione, freschezza e un pizzico d’esperienza.
Ben poco è lecito attendersi invece da Scott Walker. La sua barbosa esibizione di Cleveland non promette nulla di buono. Tanto più che – anche dopo quella noiosissima performance – non si è minimamente sognato di cambiare strategia comunicativa: ha continuato a ripetere stancamente la solita tiritera delle sue lotte anti-sindacali, ribadendo ad nauseam la propria “gagliarda” natura di “combattente”. Risultato: l’elettorato lo ha letteralmente abbandonato. E nel giro di una settimana, è crollato in Iowa (dove vantava precedentemente picchi ineguagliabili di gradimento), precipitando al terzo posto, dietro Trump e Carson. Ancora oggi, non si sa effettivamente dove voglia andare e appare sempre più tentennante e indeciso. E poi – detto tra parentesi – ricorda Mr Bean quando ha sonno. Non certo un inno alla freschezza e al dinamismo!
Possibili sorprese poi da John Kasich. Molto spostato a sinistra, potrebbe ingaggiare battaglia non solo con i competitor più radicali (da Cruz a Huckabee) ma anche con i moderati, a partire da Bush. Anzi, proprio un eventuale confronto con quest’ultimo potrebbe rivelarsi interessante, dal momento che discreta parte dei moderati repubblicani (per esempio in New Hampshire) iniziano a considerare lui, anziché Jeb, come propria figura di riferimento.
Un’area – quella centrista – rappresentata anche da Chris Christie: il governatore del New Jersey non sta brillando nei sondaggi. E anche la raccolta-fondi presenta qualche problema. Ma le sue doti oratorie sono note. Chissà che non riesca a risollevarsi, magari riproponendo qualche altro siparietto bellicoso con Rand Paul!
E da quest’ultimo non ci si potrà attendere molto più infatti di qualche polemica scalmanata. Nel suo radicalismo da bastiancontrario, si scontrerà prevedibilmente con qualcuno dei contender, fissandosi su qualche questione di principio. D’altronde, essendo la sua una candidatura di bandiera (come quella del padre, Ron, nel 2012), se lo può permettere. Se non altro, movimenterà un po’ il dibattito.
Inoltre, attenzione alla religious right. Non ci sarà da aspettarsi chissà quali novità da Huckabee e Cruz. Eppure, sarà opportuno tenere d’occhio proprio il pio Ted: soprattutto nei suoi eventuali confronti con Trump. Sono mesi che difatti i due se la intendono, difendendosi ed elogiandosi reciprocamente. Adesso, poi, si sono anche alleati nella battaglia per l’opposizione al Nuclear Deal. Che ci sia qualcosa dietro? Un matrimonio d’interesse? Un’eventuale intesa, in vista di un ticket presidenziale? E’ indubbiamente prematuro per dirlo. Ma mercoledì prestiamo comunque attenzione.
Infine, occhio a uno dei moderatori: Hugh Hewitt. Celebre giornalista conservatore, vanta una carriera da spin doctor e ghostwriter nelle amministrazioni di Richard Nixon e Ronald Reagan: ma soprattutto è attualmente conduttore di una popolare trasmissione radiofonica (“The Hugh Hewitt Show”). Ed è proprio nel corso di quest’ultima che, alcuni giorni fa, ha intervistato Donald Trump, mettendolo alle strette su alcune questioni di particolare rilevanza politica: attraverso una serie di domande incalzanti, ha difatti messo a nudo l’impreparazione del magnate su diverse problematiche di foreign policy (come la sua incapacità di spiegare la differenza tra Hamas e Hezbollah). Proprio per questo, numerosi analisti si aspettano uno scontro tra i due: anche perché – ad oggi – Hewitt sembra essere stato l’unico in grado di colpire con una certa efficacia il ciclone Trump. E – non a caso – su “Politico” è stato definito da Todd Purdum “il grande inquisitore”, pronto a castigare le buffonerie del biondo miliardario.
Ormai ci siamo. Manca poco. E il dibattito si preannuncia sanguigno, feroce e rissoso. Come una guerra? Peggio: come un’assemblea condominiale.
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