Geopolitica

Il ritorno di un gioco antico, da Yalta a Kyiv

Ricordando Yalta , il rischioso ritorno della politica di potenza e delle sfere di influenza. Dall’Ucraina al Medio Oriente, il destino del progetto politico europeo nella stretta tra neo imperialismi autoritari

2 Luglio 2025

In un saggio pubblicato su Foreign Affairs nel marzo scorso, la professoressa Monica Duffy Toft ha indicato dei parallelismi tra la conferenza di Yalta negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale e i tentativi di negoziare la fine della guerra in Ucraina.

Ottant’anni fa, i leader dell’Unione Sovietica, del Regno Unito e degli Stati Uniti si incontrarono a Yalta per dividere l’Europa in sfere d’influenza, in modo da poter determinare la sovranità e il futuro dei paesi vicini. Oggi, Cina, Russia e Stati Uniti, in accordi informali, potrebbero in qualche modo nuovamente negoziare un nuovo ordine globale tra loro, un ordine in cui le istituzioni multilaterali vengono messe da parte e le grandi potenze dettano le condizioni agli Stati più deboli. Convitato di pietra e possibile vittima sacrificale potrebbe essere l’Ucraina, prima ma non ultima. Eppure ristabilire sfere d’influenza è diventato un progetto molto più complesso di quanto non fosse nel 1945, ha osservato Toft.

È un gioco che ne richiama uno ancor più antico, il Concerto tra le Nazioni, un rimosso che riemerge a ricordarci come eravamo e come è nata la nostra storia. Anche se, alla luce degli avvenimenti degli ultimi anni, temiamo la profezia di Marx sui grandi eventi della storia che ritornano due volte: la prima come tragedia e la seconda come farsa. Una farsa tragica. Il mondo oggi è più interdipendente di allora, e le istituzioni multilaterali, anche se in crisi, potrebbero riaffermarsi. Se organizzazioni come l’Unione Europea si muovessero per un ordine basato sulle regole, ha scritto Toft, potrebbero proteggere il mondo dalle grandi potenze che desiderano dividerlo in pezzi.

A conferma che l’insistenza soprattutto di Macron, Starmer e Merz nel sostegno all’Ucraina, oltre a rimarcare la difesa di intangibilità, sovranità e libertà di un paese d’Europa da un’aggressione militare, sia anche tenere il punto politico e strategico: il contrasto e il contenimento all’imperialismo militarista di Putin, proprio per impedire che saldature tra autoritarismo e sovranismi interni o appoggiati dall’esterno tentino di mettere fine al progetto politico di un’Europa autonoma, forte e indipendente, ricondotta a mero spazio economico e di mercati comuni.

L’idea di un ritorno delle sfere d’influenza, sebbene in una forma più complessa e dinamica rispetto al passato, può essere motivata da diversi fattori.

Dopo la Guerra fredda, l’ordine internazionale è stato spesso descritto come unipolare, con gli Stati Uniti come unica superpotenza dominante e promotore di un ordine liberale e liberista, di cui la globalizzazione economica e la diffusione di regimi politici modellati sulla falsa riga di una democrazia liberale, e soprattutto americana, avrebbero dovuto essere l’elemento propulsivo. Consenso che si è progressivamente eroso. La crisi finanziaria del 2008, l’intervento in Iraq e Afghanistan (percepiti come fallimentari e destabilizzanti), i disastrosi tentativi di regime change, l’aumento verticale delle disuguaglianze e la polarizzazione politica interna in molti paesi occidentali hanno indebolito la credibilità e la capacità di sostenere questo ordine e creato spazio per altre potenze che hanno cercato di modellare regioni specifiche secondo i propri interessi, riaffermando una logica di influenza.

La Russia di Putin è stata il soggetto che più ha apertamente contestato questa visione, percependola come una minaccia diretta alla sua sicurezza e agli interessi nella sua area di vicinanza strategica. Da questo punto di vista, l’annessione della Crimea, il sostegno alle forze separatiste nel Donbass e l’invasione su larga scala dell’Ucraina sono state manifestazioni palesi di un tentativo di ristabilire una sfera d’influenza, di egemonia territoriale e di spazi imperiali, impedendo l’integrazione dell’Ucraina in alleanze occidentali, in analogia a quanto sta avvenendo in Georgia e in Moldova, nelle forme di pressione e guerra ibrida in azione nei paesi baltici e nei palesi tentativi di influenzare il voto politico in altri paesi dell’Europa orientale.

Quanto alla Cina, sta sicuramente consolidando la sua influenza economica, politica e militare nell’Asia-Pacifico e in altre regioni del mondo, tramite la Belt and Road Initiative, investimenti, prestiti. La sua crescente assertività nel Mar Cinese Meridionale, nei confronti di Taiwan e nel plasmare le narrazioni internazionali, riflette un desiderio di definire un ordine regionale a proprio vantaggio.

Nuove dinamiche nel crollo dell’ordine internazionale

In questo crollo dell’ordine internazionale è apparso evidente che organizzazioni come le Nazioni Unite, in particolare il Consiglio di sicurezza bloccato dai veti, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e persino il G7/G20, faticano oggi a ritrovare un consenso unanime sulle grandi sfide globali. Questa paralisi decisionale spinge le potenze, grandi e piccole, a cercare soluzioni al di fuori o a limitare la loro dipendenza da queste istituzioni, preferendo accordi bilaterali o coalizioni che riflettano meglio i loro interessi. Questo, a sua volta, facilita la formazione di blocchi o sfere basate su affinità o coercizione.

Non si tratta più solo della competizione tra le grandi potenze, ma di un panorama multipolare in cui attori regionali come Turchia, Iran, India, Brasile e Arabia Saudita cercano di affermare la propria autonomia e influenza nelle rispettive aree. Una competizione che ha portato alle proxy wars, guerre per procura, e a tentativi di fidelizzare Stati più piccoli, trasformandoli in satelliti o partner privilegiati all’interno di una determinata orbita. La corsa all’accaparramento di risorse, il controllo delle rotte commerciali e l’influenza tecnologica rientrano in questa logica.

Da questo punto di vista, anche la guerra di Israele a Gaza e l’escalation con l’Iran, dopo quella con i suoi alleati Hezbollah e Hamas, hanno finito così con il giocare un ruolo centrale e altamente destabilizzante. Questo conflitto, uscito dall’alveo di una crisi regionale, è diventato epicentro di una competizione geopolitica più ampia, amplificando le logiche di potenza. Gli USA, che hanno sempre avuto una forte influenza nel Medio Oriente, con Israele come alleato chiave, fino a ieri si trovavano a bilanciare il sostegno a tale alleanza con la necessità di evitare un’escalation regionale e di non alienare i paesi arabi, mentre, con la decisione di entrare direttamente nel conflitto bombardando l’Iran, hanno spostato l’asse di nuovo pienamente a fianco di Israele.

In questa vicenda, Putin mai avrebbe potuto trovare alleato migliore in Netanyahu, che ha spostato l’attenzione internazionale dalla guerra in Ucraina, sfruttato la crisi per delegittimare l’Occidente per il doppio standard, sostegno a Kyiv contro l’invasione russa ma scarsa reale pressione su Israele per i crimini di guerra a Gaza. Mosca, pur in grande difficoltà, cerca di guadagnare influenza nel Sud globale e tra i paesi arabi, mantenendo legami con l’Iran e cercando di presentarsi come mediatore alternativo o come difensore degli interessi palestinesi, indebolendo la sfera d’influenza statunitense.

In tutto ciò, la Cina ha mantenuto un approccio più cauto: da un lato per potenti interessi economici che richiedono stabilità, dall’altro cercando di posizionarsi come attore responsabile, come nella mediazione avvenuta tra Iran e Arabia Saudita, vedendo nell’indebolimento dell’influenza statunitense un’opportunità per espandere la propria, senza un coinvolgimento in conflitti militari diretti.

Il destino dell’Europa

Non sappiamo quanto delle decisioni prese al summit del 24 giugno dei paesi Nato all’Aja verranno effettivamente rese operative. Il vertice è stato caratterizzato da un tentativo di riaffermare l’unità e la deterrenza dell’Alleanza in un contesto geopolitico estremamente complesso e incerto. L’impegno in un decennio di aumento delle spese pro-stato per la difesa è il risultato più concreto, ma i paesi sono ancora alle prese con le tensioni interne, con le dinamiche imposte dalla inaffidabile e volubile presidenza Trump e con la necessità di definire il proprio ruolo.

In questo senso possiamo dire che il destino dell’Alleanza Nato è legato al destino dell’Europa politica. In una situazione di collasso e anarchia internazionale, una politica militare e di difesa comune è il presupposto di una proiezione esterna, una condizione necessaria per essere una potenza politica capace di incidere e orientare, fare proposte e trattative, mediazioni e accordi. Una politica che significherà sviluppo congiunto di capacità militari e capacità di dispiegare forze di difesa per la gestione delle crisi, ma che non sarà certo sufficiente in assenza di una visione di un futuro e di cosa vuole essere l’Europa di domani.

L’UE è potenzialmente un blocco politico-economico mondiale, ma rischia di rimanere ferma nell’irrilevanza e nel vassallaggio di altre potenze, come ha più volte sottolineato Mario Draghi. Si tratta di valorizzare il suo pilastro sociale e di tutela dei diritti, utilizzare la sua influenza economica, attraverso accordi commerciali con clausole sociali e ambientali rigorose, puntare a un’indipendenza digitale e tecnologica. Per agire come un attore geopolitico, l’UE dovrà superare i veti e saper decidere a maggioranza qualificata, portando a termine una riforma dei processi decisionali per affermarsi innanzitutto come un polo di attrazione per la sua stabilità economica, i suoi valori democratici e la sua capacità di promuovere un ordine internazionale basato sulla cooperazione e sul diritto, agendo come una potenza normativa, cioè che stabilisce norme e standard, e una potenza civile con forti strumenti economici e diplomatici.

Bisogna essere consapevoli che, in questa prospettiva, saremo soli, perché nessuna delle grandi potenze, vecchie o neo-imperiali, ha interesse a un soggetto politico europeo forte, scontando oggi anche l’evidente affinità autoritaria e di concezione del potere tra Trump e i suoi interlocutori cinesi e russi, pur nella divergenza di visioni, strategie e posture internazionali.

Abbagliati dalla sfida tecnologica del web e del digitale, bloccati a lungo tra apocalittici e integrati, tra narrazioni apologetiche della globalizzazione e un moralismo umanitario declamatorio, la cifra delle relazioni internazionali per lungo tempo è stata caratterizzata dall’incapacità di darne una lettura politica, dei processi, dei poteri, delle forze egemoniche. Ma essa, scavando sottoterra come un fiume carsico, è alla fine riemersa, presentandosi nel suo volto più drammatico e violento, seguendo cesure e faglie di conflitti mai sanati.

Protagonisti sono tornati ad essere gli Stati, che si muovono per interessi leciti e meno, dichiarati e non, per esercitare un’egemonia. Apparati e poteri spesso interconnessi, che, sulla base di negoziazioni, dimostrazioni di minacce e uso della forza economica e militare, gestiscono decisioni fondative e strategiche. Nella proliferazione dei conflitti, nello sdoganamento della violenza e della guerra come mezzo ordinario di risoluzione dei conflitti, nella contestazione della legittimità degli interventi internazionali, emerge preponderante una situazione di vulnerabilità degli Stati in ogni loro forma politica, ma ancor più delle democrazie liberali, per loro natura più esposte di altre a manifestazioni ostili. Una vulnerabilità che, se sottovalutata, rischia di retrocedere anche all’interno dei singoli paesi.

Una situazione che, oltre alla difesa, dovremo affrontare da più punti di vista, rafforzando la governance democratica, la trasparenza nei processi decisionali, la partecipazione civica, la coesione sociale e la riduzione delle disuguaglianze, ed elaborare piani di preparazione e risposta a crisi di diversa natura, naturali, economiche, di sicurezza, che coinvolgano tutti i settori della società.

Perché, soprattutto nelle situazioni di crisi, non è solo il dato socioeconomico a marcare le divisioni, le polarizzazioni e i contrasti. Sono soprattutto i fattori culturali – la morale individuale e collettiva, la visione della propria identità, il riconoscersi in un proprio patrimonio nazionale, le proprie paure, pulsioni irrazionali, la percezione di insicurezza e fragilità interna ed esterna – che si dimostrano più importanti, nella politica, nella storia, negli orientamenti profondi delle società.

Il contrasto tra l’aspirazione dei popoli a principi universali di diritti e libertà, storicamente emblematica la tragica vicenda palestinese, e la loro scarsa tutela e oppressione all’interno di tanti singoli paesi, il contrasto tra la pace e la stabilizzazione geopolitica data dagli equilibri di forza e relazioni rimilitarizzate, tra l’interdipendenza economica e tecnologica globale e il desiderio delle grandi potenze di esercitare un controllo unilaterale, saranno le tensioni centrali del nostro tempo e una delle partite principali sulle quali si giocherà il futuro di un nuovo possibile ordine mondiale.

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