De Rita, Gli Omini e la famiglia Campione
Non è Festen, nemmeno La famiglia di Scola: modelli troppo lontani, ormai quasi astratti.
No, la famiglia di cui parlano Gli Omini è banale, piccolo borghese, magari a rischio di scivolare tra le neopovertà d’oggi. Una famiglia di provincia, chiusa in casa, a vivere tutti assieme. Tre generazioni, maschi e femmine. Parlano un italiano dal forte sapore dialettale, un toscano quotidiano, riconoscibile, normale, qualunque. Eppure come in Festen o come nel film di Scola, tra i membri di questa famiglia si agitano anche gli spettri dell’odio, della frustrazione, delle rivendicazioni, dell’amarezza. L’affetto, che pure c’è, naturalmente resiste: è affetto genitoriale, fraterno. Si avverte come collante fondamentale, ma diventa anche appiccicaticcia vischiosità, che non lascia liberi. Lo spettacolo de Gli Omini ha un titolo che significa molto, La famiglia Campione: la c maiuscola sta a indicare un cognome, ma campione è anche modello, carotaggio di realtà possibili. Frutto di un lungo lavoro di indagine sul campo, lo spettacolo è infatti un breve, fulminante, spaccato sociale: ci siamo tutti là in mezzo.
Come sta messa, dunque, la famiglia italiana? Questa sacra famiglia strenuamente difesa da santaromanachiesa, questo moloch intoccabile e immutabile, questa consunta sovrastruttura che connota e incardina. Dovrebbe vederlo De Rita, questo spettacolo: e magari ci penserebbe un istante in più, prima di presentare il rapporto Censis, in cui grande risalto è dato alla disperata condizione della gioventù, con il figlio seduto accanto. Quelli della famiglia Campione non hanno santi in paradiso, non hanno ammanicamenti: si arrabattano, tirano avanti. Come tanti.
I toscanissimi Gli Omini, nell’apparente nullità di conversazioni blande, di giochetti consunti, di situazioni incancrenite, mostrano la realtà qual è: ovvero, senza fraintendimenti, un disastro. È un ritratto livido, aspro, che fa affiorare tutta la piccineria italiana, tra fanfaronismo e pietismo, ricatti morali e opportunismo, sottili violenze subite e patite, apatia e velleitarismo, ignoranza e presunzione. Quell’Italia segnata da dinamiche sentimentali sempre più faticose, perché nella miseria e nella disoccupazione anche l’amore è un ormai un privilegio; con gli anziani che devono accollarsi i giovani, costretti a rimanere in casa; e i giovani che continuamente devono fare i conti con gli anziani; con le crisi che si risolvono cercando sollievi in una preghiera.
Nella famiglia Campione c’è un nodo: un figlio si è chiuso in bagno da una settimana. Non esce e non parla, ma mangia: un hikikomori alla fiorentina, che però costringe tutti gli altri a gravitare attorno a quella porta chiusa. Di fronte alla porta del bagno si consumano i dialoghi feroci e stralunati, densi e poveri di tutto, particolarmente di prospettive. Il racconto, poi, svela che uno dei figli sta per partire, all’estero: emigrazione, come unica salvezza, come unica speranza per queste famiglie italiane. Eccolo, il paese reale, ecco la vita, amaramente mostrata dal gruppo toscano.
Si ride molto, e bene: ma la risata suona immediatamente imbarazzante, perché tutto è come subito inghiottito da quella mestizia casalinga, senza speranza, che è l’odore tipo del nostro paese.
Vidi Gli Omini anni fa e non mi piacquero. All’epoca non avevo apprezzato, o forse non avevo capito, una comicità che mi sembrò eccessivamente grossolana e facile. Con molto piacere, invece, ritrovo il gruppo, forte non solo di strumenti affilatissimi di indagine e critica sociale, ma anche di questa ironia acutissima e tagliente che fa pensare al viareggino Monicelli. Perché poi, in fondo, in questa storia gelida, restano tracce di umanità, che consolano e trattengono dalla disperazione.
Sono bravi, in scena, i tre interpreti: Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini (cui si unisce, nell’autoralità del gruppo, anche Giulia Zacchini). Con un cappello o una busta della spesa, con una postura particolare o un gesto, connotano tutti i componenti la famiglia. Hanno un ritmo stralunato, sospeso, una narrazione che procede a zig zag, per fughe in avanti e improvvisi rallentamenti, per spirali che si sovrappongono a seconda delle generazioni che stanno parlando. In questa famiglia “allargata” (c’è un vecchio marito incerto che ancora gravita in casa e che regala ai figli solo gilet, e c’è il nuovo uomo, più deciso e spaccone) risuona il buon senso pedante dei vecchi, la rivalità maschile, l’ansia rassegnata dei giovani. E su tutto quello stato di torpore, di umile dignità, di provincialismo e perbenismo, di incombente sconfitta. L’Italia qual è, insomma, con buona pace di De Rita e del “loro” Censis a gestione familiare.
Lo spettacolo, che si avvale del sostegno produttivo dei Teatri di Pistoia e del Teatro della Pergola di Firenze, è andato in scena nel rinato (o almeno riaperto, dopo un lungo e ingiustificato sequestro) spazio del Rialto, al ghetto di Roma: spazio occupato e autogestito, guidato già anni fa con lungimiranza dal critico Graziano Graziani, che ora si avvale anche di altre vivaci collaborazioni, il Rialto è stato – ed è – un ambiente che si è rivelato accogliente incubatore di realtà teatrali, supplendo spesso alle lacune produttive e propositive delle istituzioni pubbliche deputate. Oggi nel dissequestrato centro tornano a farsi vedere formazioni interessanti, con produzioni magari piccole (in termini economici) eppure significative. Per La famiglia Campione eravamo pochini: si spera che anche il pubblico sappia ritrovare con entusiasmo questa sala.
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