Le parole della scuola

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20 Febbraio 2021

In un contributo messo in rete, Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre, affronta questioni terminologiche non secondarie nella percezione della scuola di oggi:

«Quando, una quindicina d’anni fa, un allenatore disse in conferenza stampa che il suo gioco era “basato sulle ripartenze, non sul contropiede”, l’indomani i giornali scrissero così: “la squadra gioca con le ripartenze, non col contropiede”. Il fatto che, tutto sommato, agli occhi del grande pubblico, quelle ripartenze non presentassero differenze macroscopiche rispetto al vecchio contropiede, non impedì alla stampa di usare il nuovo termine. D’altra parte, il calcio è una faccenda complessa e, se un tecnico impiega un termine nuovo per significare qualcosa che a uno sguardo meno competente nuova non sembra, è bene che il linguaggio dei media inizi ad adeguarsi. Se interessato, il grande pubblico capirà: tra ripartenze e contropiede in effetti ci sono sottili differenze, e usare nomi diversi è il primo modo per riconoscerle (non mi soffermo sui benefici di tale riconoscimento).
Nella scuola le cose vanno molto diversamente. I media parlano ancora di Scuola Materna o addirittura di Asilo benché da trent’anni la locuzione corretta sia Scuola dell’Infanzia. La confusione è notevole, talvolta vengono fuse sotto la dicitura Asili sia la Scuola d’Infanzia (3-6 anni) sia i Nidi (0-3). Stesso destino tocca in sorte ai cicli successivi: è ancora un profluvio di Scuole Elementari, Medie, Superiori. Per tacere della tendenza, classista, a usare “Liceo” per definire tutto quello che succede tra i quattordici anni e la maggiore età. D’altro canto, si sente ancora parlare di Esami di Maturità (sarebbero “di Stato”), mentre il rilancio voluto da Draghi è stato interpretato nelle maniere più disparate, non capendo se il riferimento fosse a ITS o ITIS. Figuratevi quello che avviene quando la testata giornalistica sceglie di ospitare l’intellettuale di turno che si imbarca in discorsi su voti, giudizi e valutazione o su conoscenze e competenze senza avere contezza dei rapporti tra questi termini.
Perché, informando sulla scuola, l’informazione tende a usare termini inappropriati?
Perché, il più delle volte, chi fa informazione sulla scuola non è consapevole del fatto che si tratta di una faccenda complessa più o meno quanto il calcio. Chiunque ha frequentato le scuole, e quanto saranno diverse le scuole d’Infanzia di oggi rispetto alle Materne di trenta, quaranta o cinquanta anni fa?
Ecco, posso darvi una notizia: sono diverse. Molto diverse. Tanto diverse che la differenza è persino maggiore rispetto a quella che passa tra un contropiede e una ripartenza.
Tutto sommato, sarebbe opportuno informarsi, prima di informare»

Pubblicare in questa sede il contributo di Cristiano Corsini ha due scopi. Il primo è quello di dare un contributo alla diffusione di un buon modo di parlare (sono giornalista pubblicista e, di conseguenza, quando si parla di “media” devo tenere in conto della critica, almeno per la mia quota parte), il secondo è fare ragionamenti sul tema e delle proposte terminologiche.

A mio modesto parere, le locuzioni “nido”, “scuola dell’infanzia” e “scuola primaria” sono assolutamente da adottare in quanto sintomatiche di una diversa visione che supera elementi anche sessisti incarnati nelle precedenti nomenclature. Sono parimenti da utilizzare le locuzioni “scuola del primo ciclo” e “scuola del secondo ciclo” che segmentano ciò che oggi avviene entro le mura degli istituti comprensivi e quello che viene dopo il primo esame di Stato nella storia delle nuove generazioni. Parimenti la distinzione “scuola primaria” e “scuola secondaria” ha un suo senso, giacché segmenta in maniera diversa da quanto espresso da “primo e dal secondo ciclo”, mettendo in evidenza caratteristiche organizzative differenti: nella scuola primaria insegnano maestre e maestri laureati presso i Dipartimenti di Scienze della Formazione (trascuro il fatto che ci siano ancora molt* che insegnano ancora col diploma perché entro pochi lustri questo transitorio sarà esaurito) mentre nella scuola secondaria hanno accesso all’insegnamento laureati in diverse discipline diventati insegnanti a seguito di percorsi molto vari di abilitazione. Su questo tema, i percorsi di abilitazione mi soffermerò prossimamente in un contributo a parte. Nel nostro paese, chiamiamo maestri/maestre e professori/professoresse gli insegnanti di questi due tipi di scuola. I/le prim* afferiscono al primo ciclo e a ciò che lo precede (dal nido, alla scuola primaria, attraverso la scuola dell’infanzia) i/le second* sono parte del primo ciclo e colonizzano il secondo.

A seguito dell’evoluzione della normativa, sono emersi nuovi nomi che, temo, sia impensabile che soppiantino i precedenti, fatta salva la buroletteratura di genere. “Scuola media”, che già era la contrazione di “scuola media inferiore”, dovrebbe essere sostituita da “scuola secondaria di primo grado”, mentre la “scuola media superiore”, sintetizzata in “Scuola superiore”, è diventata “scuola secondaria di secondo grado”. Le locuzioni “medie” e “superiori” sono esse stesse una sintesi di espressioni più lunghe che le necessità del parlato hanno contratto in due modi diversi e, mi permetto di dire, a loro modo “politically correct”: medie e superiori, appunto. Coerenza avrebbe potuto esplicitare in “inferiori e superiori”, giacché logica dice che entrambe sono “medie”, ma non è piacevole sentirsi etichettare come “inferiori” e non si toglie niente a nessuno, se non per contrasto, chiamandosi “superiori”. Invero, la geografia ci insegna che ci siano diverse locuzioni similari che prendono semplicemente atto di differenze di altitudine: Bergamo alta e Bergamo bassa, oppure, più modestamente, Albisola superiore. Non credo che negli abitanti di Bergamo bassa o di Albisola vengano indotti problemi di autostima. Credo quindi sia accettabile conservare le locuzioni “scuola media” e “scuola superiore” in luogo di “scuola secondaria di primo/secondo grado” che non sono comprimibili (“primo e secondo” di che? Troppo vicini, peraltro a primaria e secondiaria che sono già altra cosa). Lo sono per necessità nel parlato, possono a mio giudizio restare nelle comunicazioni giornalistiche, risultano imprecise quando scrivo una circolare. Di certo la sineddoche che porta a scrivere “licei” invece dell’omnicomprensivo “scuole superiori” è da evitare in quanto l’esclusione degli istituti tecnici e professionali è semplicemente svilente e, di conseguenza sgradevole. Laddove si utilizzi una figura retorica quale “la parte per il tutto”, dimenticandosi quelle che oggi sono minoranze, produce modi di pensare inaccettabili. La cosa peggiore, a mio giudizio, è pensare e scrivere, giornalisticamene, sempre e soltanto dei licei classici, massimamente frequentati dai giiornalisti, ma che rappresentano una minoranza nel panorama dell’offerta formativa.

Esistono altri termini sui quali mi piace esercitare il ruolo di linguista: “esame di Stato” e “dirigente scolastico”.

Per quel che riguarda il primo, nella vita delle nuove generazioni ne esistono due: quello posto al termine del primo ciclo di istruzione e quello posto al termine del secondo. Posto che come a suo tempo la scuola attualmente detta “secondaria” era tutta “media”, non trovo disdicevole trovare locuzioni che li distinguano, di conseguenza io trovo perfettamente legittimo chiamare “esame di Stato” il primo e “esame di maturità” il secondo, al netto del fatto che entrambi discendono da un principio costituzionale che pretende che al termine di un ciclo di studi, il titolo venga rilasciato da un “esame di Stato”. Beninteso, non trovo disdicevole usare questi vocaboli nel giornalismo e nel parlato, mentre dove occorra essere più formali, si scriverà ciò che si deve.

Per quel che riguarda la diatriba tra “preside” e “dirigente scolastico”, la trovo di segno opposto, ma simile, a quella tra “collaboratore scolastico” e “bidello”, quest’ultima assimilabile a quella tra “operatore ecologico” e “spazzino”. Penso che difficilmente estirperemo alcuni vocaboli, ma in qualche caso non ce n’é bisogno. “Preside” va benissimo. Che la legislazione sottesa abbia trasformato questa figura in quella che giuridicamente è definita in altre amministrazione “dirigente” è certamente rilevante sul piano delle cose che può fare una persona che rivesta questo ruolo, ma restano quelle che erano proprie del primo, tanto è vero che la locuzione non è ridotta a “dirigente” avendo l’attributo “scolastico” sempre appiccicata. Dovrebbe il vocabolario seguire tutte le evoluzioni normative? Mi pare eccessivo. Quindi è più chiaro, condiviso e rispettoso di un percorso storico, mantenere il nome precedente: preside. Nei verbali e nei timbri, nulla osta mettere “dirigente scolastico”.

In conclusione, in merito alle evoluzioni terminologiche, mi pare di poter dire che laddove ci siano motivazioni evolutive che potano i vocaboli ad evolversi e superare preconcetti, questi siano da preferirsi, altrimenti è inutile aderire ad un nuovismo di maniera. In alcuni casi, tuttavia, le connotazioni negative seguono culture diffuse. Ad esempio, nel caso della disabilità, quelli che un tempo venivano chiamati “minorati”, poi diventati “handicappati” e oggi “persone con disabilità” (o più sinteticamente “disabili”) continueranno ad essere negativizzati se non emergono culture dell’empatia, del diritto e della relazione diffuse. Laddove queste fossero vincenti e assimilate, bidelli e spazzini non avrebbero bisogno di cambiare nome e il cambio di nome ha solo lo scopo di dare un contributo all’induzione di cambiamenti di mentalità.

TAG: linguistica, scuola, vocabolario
CAT: Famiglia, scuola

2 Commenti

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  1. danielefisarmonica 3 anni fa

    Sono convinto, al contrario, che uno dei più gravi problemi della scuola sia proprio questa continua proliferazione di nuove terminologie, che disorienta e priva i docenti della loro relazione diretta con il proprio lavoro, e li costringe ad usare un linguaggio pieno di folli acronimi, anglicismi e neologismi ogni stagione nuovi, un linguaggio che non solo insulta continuamente la bellezza di quella lingua italiana che dovrebbe essere presa in cura proprio dalla classe docente, ma diventa un linguaggio iniziatico che media e separa il docente dallo studente e dal proprio collega. Arrivano continuamente direttive didattiche astruse e lontane anni luce dalla realtà pratica che il docente vive direttamente, arrivano portandosi dietro l’imposizione di nuove terminologie, acronimi, volgari e diseducativi. I docenti non hanno mai spazi di confronto diretto sulla didattica, perché si devono continuamente confrontare con l’oltraggio di direttive che arrivano da sedicenti pedagoghi e non apportano nulla di positivo, anzi. Anche perché, giocoforza, l’adeguamento alle ridicole e sempre nuove direttive didattiche che arrivano dall’alto, si riduce ad un’adesione burocratica a terminologie che non cambiano di una virgola la pratica del docente, che ha bisogno di formarsi il proprio metodo nel contatto diretto con i ragazzi, e che, nel fare questo, non riesce ad avere spazi reali di confronto con i propri docenti – gli unici con cui dovrebbe veramente confrontarsi – perché questi spazi sono colonizzati dalle nuove terminologie imposte astrusamente dall’alto, senza alcun contatto con la reale didattica. Come se non bastasse, dall’alto arrivano orrori come i test invalsi, che esludono la disabilità e riducono l’insegnamento ad una brutta barzelletta che non fa ridere, e che corrispondono all’ingiuria dei test preselettivi, con cui la classe docente del futuro viene selezionata alla base, sulla base dell’adesione ad una logica assolutamente arbitraria e priva di legami con l’insegnamento, prima ancora di verificarne la preparazione: l’unico obiettivo possibile di questi assurdi test preselettivi sembra essere quello di selezionare una classe docente in partenza conforme a modelli mentali assolutamente privi di spessore critico ed umanistico. Se i test invalsi hanno la funzione di fornire strumenti di valutazione univoca a livello nazionale e internazionale del lavoro dei docenti, basati però su premesse inaccettabili per una scuola inclusiva e efficace, i test preselettivi dei concorsi risolvono il problema selezionando alla base i possibili docenti, prima di valutarne la preparazione, proprio sulla loro forma mentis, che deve essere conforme a livelli di presunta oggettività estremamente inadeguati e inaccettabili, il che poi corrisponde ai percorsi predisposti dal MIUR e da INVALSI per la formazione dei neodocenti su una piattaforma, anche qui costretti, con la stessa logica dei test, a adeguare le proprie risposte a un pensiero gretto e limitato, che convoglia la formazione dei docenti in parametri inefficaci e contgroproducenti. Ho potuto verificare, pochi anni fa, aiutando una collega, che in un testo della piattaforma per la formazione dei neodocenti, un testo approvato da INVALSI e MIUR, erano presenti una quantità di errori di sintassi che se fosse stato scritto da un allievo avrebbe comportato una insufficenza grave: ma questi sono i testi prodotti dai professori che decidono chi deve essere il docente del futuro. Che parlano di disabilità e poi producono test che escludono alla radice il disabile, che poi anche su questo termine, questo sì, ci sarebbe davvero da discutere, perché LA DIVERSA ABILITA’ è una qualità di ognuno di noi, di tutti, e la scuola non dovrebbe fare altro che insegnare ad ognuno come armonizzare la propria diversa abilità nel gruppo classe, come prototipo esperienziale di quelli che saranno i gruppi di lavoro della vita adulta, o della società stessa. Tutti questo è disintegrato dai test a risposte obbligate, che pretendono una visione univoca e la scelta con una croce tra un numero limitato di risposte possibili, spesso tutte inadeguate. Sembra di assistere all’imposizione di un nuovo analfabetismo ai docenti, che sono privati del linguaggio, del confronto, e del pensiero critico. Per capire come le questioni poste da questo articolo siano ipocrisia pura, basti pensare che si disquisice se è meglio dire “Dirigente scolastico” o “Preside”, ma non ci si rende conto che questa figura è nella scuola degli ultimi anni costretta a gestire non una scuola, ma più istituti contemporaneamente, e spesso istituti comprensivi di scuole di diverso ordine e grado, con sedi dislocate in punti distanti della città: il preside o dirigente che dir si voglia, non ha più la pèossibilità pratica di gestire veramente tante realtà differenti contemporaneamente, e. nel quotidiano della vita scolastica, è ormai scomparso come figura, inarrivabile e irragiungibile; il suo lavoro viene svolto da docenti che si prodigano in sua vece, facendo quello che sarebbe il suo lavoro, senza però né un corrispettivo economico adeguato né una formazione adeguata. Ma i grandi pedagoghi preferiscono disquisire di quale sia il termine migliore per definire una figura che è stata umiliata e cancellata dall’evoluzione del sistema scuola in italia, che poi di involuzione di tratta. Basta vedere come sia crollato picco negli ultimi decenni il livello di formazione degli studenti, per responsabilitò di una elite direttiva che inventa sempre nuove terminologie e parametri ma dimentica la sostanza delle cose, e soprattutto cancella il ruolo centrale del docente nel pensare e ripensare il sistema scuola. L’esempio più tragicomico è le indicazioni per le valutazioni, che si arricchiscono ogni anni di nuovi sistemi e descrittori, per comprendere i quali noi docenti facciamo riunioni su riunioni ogni anno, e che poi, giocoforza, ssi ridurranno sempre ai soliti voti da 4 a 10, interpretati sempre e comunque, giocoforza, in modo arbitraria da ogni docente, perché questa è la natura delle cose. perché se c’è un vero problema che abbiamo ereditato dalla scuola più antica, quella che ancora dava valore all’umanesimo critico e non era una succursale della psicologia, questo è la sopravvalutazione della valutazione nel percorso didattico. I veri problemi, di cui si dovrebbe parlare tra docenti, bypassando le idiozie che arrivano dai ministeri, non sono mai contemplati dai pedagoghi ministeriali con i loro continui neologismi volgari e controproducenti, che seguono percorsi mentali al limite dell’inutile. A loro non interessa riformare una scuola sempre più deficitaria ed inadeguata alla società, a loro basta che noi usiamo parole come POF, PTOF, DAD, BES, DSA, e altre parolacce brutte, inutili e schifose, che però segnano i parametri di un linguaggio iniziatico per accedere al quale bisogna necesariamente obnubilare la proprie presenza critica ed umanistica. Insomma, l’unica cosa che produce la pedagogia dell’INVALSI, dei test PRESELETTIVI, delle PIATTAFORME per la formazione dei neoassunti, degli acronimi, degli anglicismi, dei neologismi,, ripeto, scusatemi, l’unica cosa che tutta questa merda pedagogica (SCUSATE L’EUFEMISMO MA LO TROVO MENO VOLGARE CHE PARLARE DI PTOF O DI “ESAMI DI STATO”) assicura è quella di affidare la scuola ad un docente paralizzato mentalmente, conformizzato al nulla di una pedagogia controproducente, privo di reali strumenti per includere le diverse abilità di ogni singolo discente: il perfetto automa per una società sempre più disumanizzata, per una scuola che prepara un futuro di tristezza e violenza. Grazie.P.S. Le attività didattiche andrebbero fatte cominciare, come un tempo, quando il caldo è finito, ovvero il 1 di ottobre, anche perché le scuole non hanno le tende.

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  2. danielefisarmonica 3 anni fa

    SCRIVO QUI LO STESSO COMMENTO, CORREGGENDO GLI ERRORI DI SCRITTURA DOVUTI AL MALEFICO TELEFONINO. Sono convinto, al contrario, che uno dei più gravi problemi della scuola sia proprio questa continua proliferazione di nuove terminologie, che disorienta e priva i docenti della loro relazione diretta con il proprio lavoro, e li costringe ad usare un linguaggio pieno di folli acronimi, anglicismi e neologismi ogni stagione nuovi, un linguaggio che non solo insulta continuamente la bellezza di quella lingua italiana che paradossalmente dovrebbe essere presa in cura e trasmessa alle generazioni future proprio dalla classe docente, ma si configura così come un linguaggio iniziatico che separa il docente dallo studente e dal proprio collega. Arrivano continuamente direttive didattiche astruse e lontane anni luce dalla realtà pratica che il docente vive direttamente, arrivano portandosi dietro l’imposizione di nuove terminologie, acronimi, volgari e diseducativi. I docenti non hanno mai spazi di confronto diretto sulla didattica, perché si devono continuamente confrontare con l’oltraggio di direttive che arrivano dall’alto da sedicenti pedagoghi lontani anni luce dalla realtà della scuola, e che non apportano nulla di positivo, anzi!! Anche perché, giocoforza, l’adeguamento alle ridicole e sempre nuove direttive didattiche che arrivano dall’alto, si riduce sempre alla fine ad un’adesione solo burocratica, in cui si utilizzano terminologie che di fatto poi non cambiano di una virgola la pratica del docente, il quale invece ha bisogno di formare il proprio metodo nel contatto diretto con i ragazzi, e che, nel fare questo, non riesce ad avere spazi reali di confronto con i propri colleghi – gli unici con cui dovrebbe veramente confrontarsi – perché questi spazi sono colonizzati dal proliferare virulento di tali nuove terminologie imposte astrusamente dall’alto, senza alcun contatto con la reale didattica. Come se non bastasse, dall’alto arrivano anche orrori come i test invalsi, che escludono la disabilità e riducono l’insegnamento ad una brutta barzelletta che non fa ridere proprio nessuno, e che corrispondono all’ingiuria dei test preselettivi nei concorsi, con cui i candidati a formare la classe docente del futuro, prima ancora di essere valutati per la loro preparazione, vengono selezionati sulla base dell’adesione mentale ad una logica assolutamente arbitraria e priva di legami con l’insegnamento e di qualsiasi profondità critica: l’unico obiettivo possibile di questi assurdi test preselettivi sembra essere quello di selezionare una classe docente in partenza conforme a modelli mentali assolutamente gretti ed inadeguati. Se i test invalsi hanno la funzione di fornire strumenti di valutazione univoca a livello nazionale e internazionale del lavoro dei docenti, basati però su premesse inaccettabili per una scuola inclusiva e efficace, analogamente i test preselettivi dei concorsi risolvono il problema selezionando alla base i possibili docenti non sulla loro preparazione ma sulla loro forma mentis, che deve essere conforme a livelli di presunta oggettività estremamente inadeguati e inaccettabili, il che poi corrisponde ai percorsi predisposti dal MIUR e da INVALSI per l’anno di formazione dei neo-docenti, che avviene su una piattaforma in cui, anche, questi malcapitati sono costretti, con la stessa logica dei test, ad adeguare le proprie risposte a un pensiero gretto e limitato, che convoglia la formazione dei docenti in parametri inefficaci e controproducenti, privi di qualsiasi spessore critico ed umanistico, ed oltretutto anche segnati dall’ignoranza di chi prepara questi percorsi. Ho potuto verificare, pochi anni fa, aiutando una collega, che in un testo della piattaforma per la formazione dei neo-docenti, un testo approvato solennemente da INVALSI e MIUR, erano presenti una quantità di errori di sintassi che se fosse stato scritto da uno studente avrebbe comportato un’insufficienza grave: questi sono i testi prodotti dai grandi professori pedagoghi che decidono chi devranno essere i docenti del futuro!! Degli ignoranti praticamente, che non sanno scrivere in italiano, Costoro parlano sempre a gran voce di disabilità ma poi producono ed impongono test a risposta obbligata che escludono alla radice il disabile. Che poi, anche su questo termine, questo sì, ci sarebbe davvero da discutere, perché LA DIVERSA ABILITA’ è una qualità di ognuno di noi, di tutti, e la caratteristica fondamentale che una scuola umanistica e critica deve riconoscere e valorizzare: la scuola non dovrebbe fare altro che insegnare ad ognuno come armonizzare la propria diversa abilità nel gruppo classe, come prototipo esperienziale di quelli che saranno i gruppi di lavoro della vita adulta, o della società stessa. Tutto questo è completamente disintegrato dai test a risposte obbligate, che pretendono una visione univoca, in cui si impone la scelta con una croce tra un numero limitato di risposte possibili, spesso tutte inadeguate, e in cui la complessità della risposta soggettiva non ha nessuno spazio possibile. Sembra di assistere all’imposizione ai docenti di un nuovo analfabetismo, ottenuto attraverso la privazione del linguaggio, del confronto, e del pensiero critico. Per capire come le questioni poste dall’articolo che sto commentando siano ipocrisia pura, basti pensare che si disquisisce sul fatto se sia meglio dire “Dirigente scolastico” o “Preside”, facendo finta di non sapere che questa figura, in qualsiasi modo la si voglia chiamare, è nella scuola degli ultimi anni costretta a gestire non una scuola, ma più istituti contemporaneamente, e spesso istituti comprensivi di più scuole di diverso ordine e grado, con sedi dislocate in punti distanti della città: il preside o dirigente che dir si voglia, nella scuola delle nuove terminologie, non ha più la possibilità pratica di gestire veramente le realtà differenti che gli sono affidate, e, nel quotidiano della vita scolastica, è ormai scomparso come figura, inarrivabile e irraggiungibile; il suo lavoro viene di fatto svolto da docenti che si prodigano in sua vece, facendo quello che sarebbe il suo lavoro, senza però avere né un corrispettivo economico adeguato né una formazione adeguata, né una figura idonea. Ma i grandi pedagoghi preferiscono disquisire su quale sia il termine migliore per definire una figura fingendo di non sapere che questa figura viene umiliata e cancellata dall’evoluzione del sistema scuola in Italia, che poi non di evoluzione ma di involuzione di tratta. Basta vedere come sia crollato a picco negli ultimi decenni il livello di formazione degli studenti, per responsabilità di una élite direttiva di grandi pedagoghi che inventano sempre nuove terminologie e parametri ma dimenticano la sostanza delle cose, e soprattutto cancellano il ruolo centrale del docente nel pensare e ripensare il sistema scuola. L’esempio più tragicomico è quello delle indicazioni per le valutazioni, che si arricchiscono ogni anni di nuovi sistemi e descrittori, per comprendere i quali noi docenti siamo costretti a fare ogni anno riunioni su riunioni, tempo buttato via, visto che poi, giocoforza, tutto si ridurrà sempre ai soliti voti da 4 a 10 del libro Cuore, oltretutto interpretati sempre e comunque, giocoforza, in modo arbitrario da ogni docente. Non ci si inventa nulla nella scuola da molto tempo, se non di negativo. Se c’è un vero problema che abbiamo ereditato dalla scuola più antica, quella che ancora dava valore all’umanesimo critico e non era una succursale della psicologia, questo è la sopravvalutazione del voto, o giudizio che dir si voglia (o come cavolo vi va di chiamarlo). I veri problemi, di cui si dovrebbe assolutamente parlare tra docenti, bypassando le idiozie che arrivano dai ministeri, non sono mai contemplati dai pedagoghi ministeriali, che, con i loro continui neologismi volgari e controproducenti, seguono percorsi mentali al limite dell’inutile. A loro non interessa riformare una scuola sempre più deficitaria ed inadeguata alla società, a loro basta che noi usiamo parole come POF, PTOF, DAD, BES, DSA, e altre parolacce brutte, inutili e schifose, che fanno vedere quanto loro sono gagliardi e aggiornati. Questi termini segnano i parametri di un linguaggio iniziatico per accedere al quale bisogna necessariamente obnubilare la proprie presenza critica ed umanistica. Insomma, l’unica cosa che la pedagogia dell’INVALSI, dei test PRESELETTIVI, delle PIATTAFORME per la formazione dei neoassunti, degli acronimi, degli anglicismi, dei neologismi,, ripeto, scusatemi, l’unica cosa che tutta questa merda pedagogica (SCUSATE L’EUFEMISMO MA LO TROVO MENO VOLGARE CHE PARLARE DI PTOF O DI “ESAMI DI STATO”) assicura è quella di far diventare il docente una persona paralizzata mentalmente, conformizzata al nulla di una pedagogia controproducente, priva di reali strumenti utili ad includere le diverse abilità di ogni singolo discente: il perfetto automa per una società sempre più disumanizzata e gerarchizzata, per una scuola pensate in modo da preparare a tutti noi e ai nostri figli un futuro di tristezza e violenza. Grazie!! P.S. Le attività didattiche andrebbero fatte cominciare, come un tempo, quando il caldo è finito, ovvero il 1 di ottobre, anche perché – forse chi è al ministero non lo sa – le scuole non hanno le tende.

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