Le cose che succedono “dopo”

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15 Aprile 2022

Caro Cigno Nero,
l’altro giorno guardavo mio figlio che non voleva venire via da una festicciola e… in quel momento mi sono ricordata di come io stessa volessi essere ogni volta l’ultima a lasciare le feste e le situazioni, convinta che sarebbe successo sempre qualcosa di importante e clamoroso dopo la mia “partenza”, cosa che spesso accadeva. Cos’è? Incapacità a lasciar andare, mania di controllo, oppure?
Giorgia S.

Cara Giorgia,
probabilmente la dinamica che hai condiviso risuonerà nella vita di molti, come accaduto in quella della sottoscritta. Questa familiarità, tuttavia, non ci è di grande aiuto per l’identificazione del cuore della questione.
A pensarci, sono tantissimi gli eventi dei quali avremmo voluto essere partecipi, da un concerto dei Nirvana alla caduta del muro di Berlino, dagli anni della contestazione al quarto goal dell’Italia sulla Germania, ma della nostra assenza siamo sempre riusciti a farci una ragione: magari non eravamo nati, magari non avevamo l’età né i mezzi per vivere certe esperienze, oppure, ancora, abitavamo dall’altra parte del pianeta.
Non c’è ragione che tenga, invece, di fronte al rodimento per quella sera precisa in cui c’eravamo eccome, o meglio, stavamo lì lì per esserci. E ci saremmo stati se solo, a un certo punto, non ce ne fossimo andati per colpa di qualche dovere meschino che bruscamente ci strappava via dal mondo, ci portava via dagli altri. Già, perché proprio la presenza di “altri”, nel senso di condivisione della storia, è il denominatore comune di quelle giornate apparentemente normalissime, in cui però avvertivamo il chiaro presentimento che ritirandoci avremmo perso qualcosa di prezioso. E la profezia si avverava. Se solo ce ne fossimo andati tutti insieme… Nulla sarebbe potuto succedere, perché – parafrasando il filosofo Berkeley – non c’è mondo se nessuno lo percepisce, se nessuno lo fa essere. E invece gli altri, col loro rimanere, hanno lasciato che il mondo accadesse.
Così l’indomani scoprivamo che – fatalità – esattamente “dopo” la nostra ritirata era successo qualcosa. Sentivamo salire una rabbia spropositata, come se di quelle che erano state magari solo una scazzottata o un’eclatante dichiarazione d’amore ne andassero le sorti del mondo intero. E il punto è che noi non eravamo presenti.
Se questo valeva allora come vale oggi, significa che quel desiderio impellente di esserci non ha tanto a che vedere con l’arido “assistere-a”, giusto per dire e postare “io c’ero”. Quella voglia di esserci finché ci sono gli altri, finché cioè qualcosa può ancora accadere, era ed è – forse ‒ più questione di “vivere”.
È tra l’altro singolare quanto raramente il fenomeno da te condiviso sia stato messo a tema. Ritrovandoci a viaggiare su un binario ipotetico, potremmo azzardare proprio una sua parentela con la vita, così come l’irritazione per la nostra assenza potrebbe averla con la morte. Voglio dire: da piccoli crediamo ingenuamente che tutto giri intorno a noi, da adolescenti poi ci sentiamo addirittura invincibili e padroni del mondo, allora verrebbe da pensare che episodi come quello che racconti siano problematici perché iniziano a introdurci a una realtà troppo assurda e spietatissima: il mondo sa girare senza di noi e continuerà a farlo anche quando non esisteremo più.
Come accettare una crudeltà simile? Impossibile per un bambino misurarsi con quest’idea – che neppure ha ancora la forma di un’idea, né è detto che mai l’avrà –, complicato per un adolescente dirsela e, ancor prima, realizzarla. Allora ci pensa il nostro fedele corpo a farsene carico per noi: i piedi si impuntano nel voler restare e il fegato si corrode, mentre ci passano davanti agli occhi tutti i pezzi di mondo che stiamo per perdere, tutte le esperienze abortite che non vedranno la luce. E soffriamo, ma non tanto come di fronte a un capriccio insoddisfatto, bensì più come al cospetto di una verità sfocata e inconcepibile che ci sussurra un “tu non sei indispensabile”.
In quest’ottica, la stranezza che rilevi intorno alle “cose” che succedevano sempre “dopo”, diventa più comprensibile. A ben guardare, infatti, le cose accadevano anche in nostra presenza, e se tuo figlio voleva restare era proprio perché stava vivendo un tempo pieno zeppo di “cose”. Questa specie di bulimia vitale, però, non è solo una questione compulsiva e individuale, perché quella voglia di presenziare sottende un’idea etica, un’idea per la quale è giusto ed è bello condividere la responsabilità di ciò che succede come di ciò che non succede. Quell’ esserci che lui ti ha reclamato, allora, non si riduce a semplice presenza, ma è voglia di farsi carico dell’essente, cioè di sperimentare quella sensazione di poter incidere in qualche modo sulla realtà che sta accadendo.
È strano quanto, sebbene inconsciamente, bambini e adolescenti sappiano incarnare una prospettiva tanto ampia, mentre da adulti fatichiamo a comprenderli, perché il paradosso è che da grandi la stessa prospettiva si rimpicciolisce. Così questa fatalità “delle cose che accadono dopo” per noi resta un mistero che neppure ci importa ormai di spiegarci: nonostante la stessa dinamica continui a ripetersi e – ad esempio – dopo esserci congedati da un aperitivo tra amici qualcosa accadrà, il non esserci stati non ci farà più la stessa rabbia perché, in fondo, la riterremo poco importante, così come riterremo poco importanti gli altri.
E forse è perché abbiamo ammainato le vele e ormai non speriamo più di cambiare il mondo o forse perché in fondo è più comodo poltrire così, fatto sta che per noi a contare davvero è solo la nostra vita borghese piccola piccola, circoscritta agli interessi familiari e lavorativi. Così il nostro trasporto per ciò che è fuori di noi si riduce ai facili giudizi che diamo sul mondo lontano, quello di una crisi di governo o di una guerra combattuta altrove, per le quali – tanto – nulla potremmo fare, o almeno così ci diciamo. E questa remissività si nutre del disinteresse per il nostro vicino di casa, per quell’altra mamma o quel papà che come noi hanno accompagnato il figlio alla festa, insomma per tutto ciò che al contempo è vicino ma comunque fuori, fuori dalle mura domestiche o fuori dalla porta dell’ufficio.
Allora guardando con più attenzione una ragazza o un bambino che vogliono restare quando è “tempo” di andare, potremmo reimparare anzitutto la capacità di esserci nel momento, di vivere il presente, che continuiamo a perdere giorno dopo giorno per rimuginare sui ricordi passati o per elucubrare progetti futuri. E poi potremmo recuperare il gusto della responsabilità per il dove si è e con chi, rivivendo quella sensazione attraverso un figlio che ci ricorda qualcosa: di aspettare le candeline e che anche gli altri vadano via, continuando a partecipare, magari conversando con chi alla festa ci è seduto a fianco, e finire per scambiarsi parole significative. Tutto sommato ci apparirebbe meno insensato il suo voler restare. Tutto sommato potremmo perfino convenire che in fondo aveva ragione lui.

In che cosa è simile, ma soprattutto in che cosa è diversa, la voglia di restare di cui abbiamo parlato finora rispetto alla nuova forma di ansia da rete sociale che va sotto il nome di “fomo”, acronimo di “fear of missing out“, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”, di perdere visibilità, aggiornamenti e ogni tipo di opportunità di interazione nei social network, accompagnata dal terrore costante che le altre persone possano fare esperienze gratificanti quando non siamo presenti on-line? 

Irene Merlini

Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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TAG: Berkeley, Dopo, fomo, presente
CAT: Filosofia, Qualità della vita

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