Siamo davvero ciò che mangiamo ? – La Posta del Cigno Nero
Caro Cigno Nero,
pensavo al ruolo del cibo ai giorni nostri: programmi tv sull’argomento spuntano come funghi e, contemporaneamente, si parla molto meno dei disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia, eccetera), anche se purtroppo non sembrano essere in calo. Vorrei chiederti cosa pensi in merito, e se la filosofia può dire qualcosa sull’alimentazione.
Aldo
Caro Aldo,
è stato proprio un filosofo, Feuerbach per la precisione, a dire che “l’uomo è ciò che mangia”, parole che hanno assestato un colpo diretto e deciso a una secolare tradizione che poco e malvolentieri ha fatto i conti con la corporeità.
Lévi-Strauss ha dedicato poi al cibo un intero filone di ricerca, rintracciando nella “cottura” una mediazione tra natura e cultura, perché, se alimentarsi è necessario, il modo di farlo, come intuisci nella mail, è un fatto culturale.
Cibo e filosofia in effetti hanno molto in comune, sebbene a prima vista l’uno appaia così popolare e l’altra così settoriale, l’uno così corporeo e l’altra così spirituale, l’uno così effimero e l’altra in connessione con quella specie di eternità che appartiene ai massimi sistemi. È Francesca Rigotti, brillante filosofa europea, a rintracciare nel cibo la stessa peculiarità del pensiero: cucinare non vuol forse dire saper unire sapientemente ingredienti? Mangiare non implica forse il processo in cui i singoli elementi si incontrano, si amalgamano, si digeriscono, a volte meglio e a volte peggio?
Dobbiamo forse badare a due dati del tempo che condividiamo: la tendenza alla perfezione dell’uomo occidentale contemporaneo, un uomo appunto, bello, magro e di successo; e quella che potremmo chiamare “psicosi gastronomica di massa”
È il cibo, lo stesso di cui parli e che condiziona prepotentemente la vita di ciascuno, per assenza, presenza e modalità, a fare da connettore tra questi due termini. Si tratta del medesimo cibo che affolla canali televisivi, interi reparti delle librerie, nonché tutte le riviste in edicola, incluse le testate maschili naturalmente. [Ci sarebbe anche da soffermarsi sull’agilità con cui il maschile è stato accolto nel mondo culinario, e chiedersi perché la stessa nonchalance non si ritrovi nei confronti del femminile in ambito scientifico, economico o politico].
La nota stonata sta in una domanda, che Rigotti pone più o meno in questi termini: come è possibile che un essere tanto spregiudicatamente tendente alla perfezione, qual è l’uomo occidentale contemporaneo, sia a tal punto concentrato sul proprio ombelico?
Chi cerca la perfezione non dovrebbe non curarsi della sua parte più corruttibile, invece di preoccuparsene in maniera tanto ossessiva?
Culmina con Cartesio l’idea che sia la mente il tratto identificativo della persona e, se si aggiunge una millenaria tradizione religiosa per cui il corpo è principalmente la culla dei nostri peccati, non stupisce che ancora oggi, sebbene più virtuali e un po’ cyborg, tendiamo a svalutare e nascondere la carne. O, diciamo meglio, la carne si mostra, va mostrata e si vuole mostrare, ma solo a patto che venga tradita, cioè a patto che appaia impeccabile.
Dopotutto non è così difficile raggiungere questa “santità” attraverso chirurgia, fitness e dubbi stili alimentari, modalità artificiali e artificiose molto distanti dal ritmo e dal sentire del corpo, perché scordiamo di esserlo, e finiamo per trattarlo come qualcosa che abbiamo e possiamo cambiare alla stregua di un vestito.
Per accorgercene basta pensare agli gli anni luce che separano una bella passeggiata, fatta per il piacere di muoverci e respirare, dal walking di un corpo che deve bruciare le 250 calorie di una brioche di troppo.
La questione è capire perché il semplice gesto di introdurre cibo, mangiare, sia diventato difficile quanto camminare su un filo di lana.
Non è un caso che chi soffre di bulimia, anoressia, BED e altri DCA, nei momenti di cedimento, si nasconda alla vista altrui, trasformando il gesto mangereccio in un rito privato e sacro, che farebbe aborrire qualsiasi spettatore: è la debolezza che va in scena, e la debolezza va nascosta. Il soggetto perfetto non cede alle richieste della carne, per restare mente pulita.
In fondo si può mangiare anche con gli occhi, e chi soffre di disturbi del comportamento alimentare lo sa bene. Diventa sufficiente nutrirsi dei cibi virtuali che vediamo in tv, sul web e sulle riviste; saziarsi delle prelibatezze di uno chef che cucina senza sporcare, in pentole immacolate, per proporci piatti altrettanto immacolati e perfetti. Non fosse per il critico di turno, che a volte ne tasta il gusto, riuscendo a sentire celestiali esplosioni di sapori, e senza la minima sbavatura.
Ma, se la massima imperfezione pare proprio il corpo, perché in fondo è colpa sua se siamo mortali, il paradosso è dimenticare che è quello stesso corpo, coi suoi fisiologici bisogni che tanto ci avvicinano agli animali, a renderci vitali.
Tradire la nostra imperfezione significa allora morire, perché è proprio la ricerca ossessiva e insana di perfezione a traghettarci verso la fine da cui vogliamo scappare.
Basterebbe riconoscere che siamo “difettati”, manchevoli e desideranti per vivere pienamente, mente e corpo, anziché vedere il nostro finitismo come una oscenità.
Perché allora non usare la nostra imperfezione come spazio di libertà? Potremmo forse rimescolare le carte: reinterpretare ricette, ordinare dei “fuori-menù” e magari – chissà – cominciare a mangiare ciò che siamo?
Irene Merlini
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Ph: Irene Merlini
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