Ciò che la Signora Pinotti forse non sa
Signora Pinotti. Io non la conosco, e sinceramente non ho mai letto, prima di oggi, una sua affermazione che colpisse la mia immaginazione, e magari […]
Le formalità nazionali e internazionali cominceranno a essere espletate nei prossimi giorni. Ma ormai, con le milizie islamiche dell’Is/Isis a soli 350 chilometri dalle coste dell’Italia e dunque dell’Europa, la decisione è presa: l’intervento militare internazionale in Libia si farà. A guidarlo sarà l’Italia di Matteo Renzi, che ha lasciato la questione Ucraina nelle mani di Francia e Germania, ma questa operazione, che vede interessi e sicurezza nazionale toccati più da vicino, ha deciso di intestarsela. La dichiarazione rilasciata lunedì 16 da Renzi stesso – «Non è il momento di interventi miliari» – va letta piuttosto come un passaggio di raffreddamento degli improvvisi ardori di francesi e egiziani, che rischiano di minare il ruolo centrale che Renzi sta cercando di costruire per l’Italia e soprattutto il successo dell’intervento. L’accelerazione di queste ore – i raid egiziani contro l’Is e l’impazienza francese per una riunione dell’Onu – rischiano tragicamente di somigliare a quella che quattro anni fa, sempre su pressione francese, portò alla rimozione di Gheddafi senza preparare come si deve il futuro: coi risultati che oggi sono sotto gli occhi del mondo.
La coalizione sarà ampia, e oltre alla presenza degli storici partner europei – Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna con l’aggiunta di Malta – ci saranno ovviamente, ma più in disparte, gli Stati Uniti. E poi Marocco, Egitto, si dice Algeria e Tunisia, e forse pure qualche altre paese africano minacciato dal terrorismo islamico, più gli Emirati Arabi. Non parteciperà – non ufficialmente per lo meno – l’Iran, ma pare che perfino il regime di Teheran “darà una mano”, perché la prossima guerra di Libia è la frontiera decisiva su cui si combatte la guerra al Califfato islamico, e anche per l’Iran quella è una guerra essenziale. Non saranno chiamati a entrare nella coalizione né Turchia né Qatar, percepiti come troppo ambigui o persino empatici con le gesta di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato califfo dello “Stato islamico” (Is).
Si va alla guerra, dunque. «In un quadro di legalità internazionale», per usare le parole del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che giovedì prossimo riferirà in Parlamento ma intanto venerdì scorso ha lasciato intendere che lì si andrà a parare. E l’indomani, bollandolo alla radio come “ministro dell’Italia crociata”, il Califfato ha dato segno di averlo capito benissimo, mentre forse da noi non è ancora ben chiaro cosa sta per succedere. Del resto, con le milizie islamiche dell’Is/Isis ormai impiantate a Sirte e intenzionate a conquistare Misurata e a seguire la capitale Tripoli, di alternative non ne restano.
È da qualche tempo che in sede internazionale si studia discretamente l’eventualità di un nuovo intervento militare in Libia, anche se si è sperato in una evoluzione diversa degli eventi nella terra che fu del colonnello Gheddafi, con l’intervento dell’inviato Onu, lo spagnolo Bernardino Leon. La situazione non è migliorata, anzi. Un governo legittimo riconosciuto dalla comunità internazionale confinato a Tobruk, al confine con l’Egitto; un altro, sostenuto dalle milizie islamiste libiche, installato a Tripoli; ampie zone controllate dai milizie locali; poi si sono aggiunti i terroristi dell’Is, e il caos è cresciuto a dismisura. Dunque, adesso ci siamo: si torna in Libia, in guerra, nella declinazione del peacekeeping o peace enforcement – sarà il Consiglio di sicurezza dell’Onu a deciderlo. «La nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente», ha aggiunto sabato scorso in un’intervista al Giornale la ministra della Difesa Roberta Pinotti. In Afghanistan avevamo mandato 5mila uomini, qui l’impegno sarà più alto.
Ci si prepara alla guerra, insomma. L’ambasciata italiana a Tripoli è stata chiusa, le poche decine di italiani presenti riportati in patria con discrezione. Già da qualche tempo l’Eni ha bloccato la turnazione del personale, così che a guardia degli impianti è rimasto solo personale locale, la produzione per ora continua, intorno ai 200mila barili di petrolio al giorno, viene detto. Di italiani sul territorio libico non ce ne sono più, almeno non ufficialmente. Unica eccezione il veronese Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico a Tripoli, che si è rifiutato di abbandonare la piccola comunità filippina cattolica presente nella capitale libica (circa 300 persone). Quando verrà il momento – questione di settimane, tutto dipende dai tempi delle Nazioni Unite – le forze italiane comincerebbero ad operare soprattutto dall’alto, offrendo supporto aereo alle truppe di terra, che saranno formate soprattutto arabi: marocchini, algerini e, in misura minore, egiziani.
Il primo obiettivo è riportare l’ordine, ricostruire lo stato unitario e pacificare il paese, togliendo terra sotto i piedi ai terroristi dell’Is, che ben prima di piantare ufficialmente bandiera nera su Sirte utilizza le basi libiche come bancomat petrolifero, taglieggiando le compagnie occidentali presenti e trovando così finanziamenti per la battaglia in Siria e in Iraq. Proprio per questo, paesi come Niger e Ciad, che si sentono minacciati sui propri confini e temono la saldatura tra Is e gruppi come Boko Haram.
Ma ci sono anche gli interessi economici e geopolitici in gioco. Non si può né si deve nascondere che, per l’Italia, ma anche per l’Europa, il ripristino di un governo legittimo e forte in Libia permetterebbe di riprendere il controllo, se non addirittura ottenere l’azzeramento, del flusso di immigrazione clandestina sui barconi. E poi ci sono anche gli interessi energetici dell’Italia e di molti altri paesi.
Ideali e interessi, dunque. Si è soliti partire dai primi per giustificare le guerra, e invece per una volta sarà bene che la politica parta dai secondi e parli chiaro alla cittadinanza italiana e non solo. Parliamo, infatti, della Libia, crocevia strategico per molte questioni fondamentali per l’Italia. Questioni che non possiamo trascurare perché ne va, domani, della nostra stabilità, sicurezza nazionale e tenuta economica, tanto più essenziale in questa fase di possibile, promessa, intravista ma non ancora sperimentata ripresa. Parliamo, anzitutto, di energia, e di una tutela delle nostre fonti storiche di approviggionamento di petrolio, che la situazione attuale sta già rendendo più costoso, rispetto ai minimi delle settimane scorse, rischiando in questo modo di compremettere una dinamica di costi dell’energia e della mobilità molto favorevole alla ripresa economica.
Una stabilità della regione, oltre a garantire forniture di petrolio libico, renderebbero più sicure quelle di gas algerino, altrettanto vitali per noi. Ancora, una soluzione della questione-Libia, ormai diventata terra di conquista facile per l’Is, è vitale per garantire una sicurezza nazionale (e continentale) sempre più minacciata dal Califfato, diventato esplicitamente minaccioso per i connazionali che stanno là, già oggi, e per noi che stiamo sul territorio nazionale già domani. Non può essere trascurato, infine, il fatto che proprio dalla Libia partivano i barconi carichi di disperati che tentavano di attraversare il Mediterraneo per arrivare in qualche modo in Italia. Nel migliore dei casi, per essere accolti in qualche centro per immigrati illegali. Nella peggiore, e sempre più frequente, con la fine dell’operazione Mare Nostrum, finivano morti in mezzo al Mediterraneo.
Qui, come si vede, i nostri interessi e gli ideali umanitari si avvicinano fino a coincidere. È chiaro che l’immigrazione illegale e disumana, infatti, è stata un’arma con cui Is ha giocato contro l’Europa avendo ormai controllo su un lembo d’Africa così vicino alle acque territoriali italiani. Questo ha mostrato e reso evidente, una volta di più, che il Califfato è seriale nelle violazioni di diritti umani, ed è sicuramente al di là di ogni frontiera accettabile anche in logiche di compromesso sulle quali – vale la pena di ricordarsene sempre – il diritto internazionale è fondato. La situazione libica, non è ulteriormente sostenibile per una serie di ulteriori ragioni gesostrategiche e politiche, che comportano il rafforzamento (grazie al potere del petrolio libico) del Califfato in altre regioni nodali, come la Siria, e la minaccia di vedere espandersi Is ben oltre i confini della Libia invadendo altri pezzi di Nordafrica è tutt’altro che fantapolitica.
A questo punto, in questo quadro, un intervento internazionale è la cosa più probabile, e la guerra finirà con l’essere l’unica opzione realistica e, addirittura, sensata. Il rischio della stasi è troppo alto, e non esiste un interlocutore politico diplomatico con cui parlare, con cui tentare altre opzioni. È altrettanto sensato, in questo quadro, che sia l’Italia ad assumere onori e oneri di guidare una colazione internazionale che non potrà essere nell’alveo Nato (dove pesa una Turchia affascinata da un’alleanza distruttiva con Is), e farà fatica ad ottenere un cappello dell’Onu, dove la Russia farà pesare i suoi interessi di paese petrolifero che ha bisogno di vedere crescere il barile per non essere strozzato, da un lato, e il dossier Ucraina come arma di trattativa dall’altra.
Siamo noi, noi italiani, che abbiamo la maggioranza dei rischi e delle opportunità, davanti a noi, quando si parla di quel che succede sull’altra sponda del Mediterraneo. Siamo noi e le nostre aziende energetiche ad essere storici partner (e ad avere conservato con grande abilità relazionale una posizione forte nell’estrazione anche in queste condizioni complesse) della Libia. Siamo noi che abbiamo l’onere sicuro e il potenziale onore insito in un intervento che porti stabilità della regione. È ora di diventare grandi, di rischiare, chiamando con il loro nome gli interessi, i valori, gli ideali e le necessità. Matteo Renzi è un politico cui si possono imputare molti difetti, ma non la mancanza di coraggio. Speriamo che, assieme a questo, la decisione di guidare una coalizione e di fare una guerra sia sostenuta dalle giuste valutazioni di merito e di metodo. La vittoria potrebbe portare dividendi economici e di immagini importanti, per il paese. Il fallimento, tuttavia, porterebbe con sé conseguenze incalcolabili come, a suo tempo, lo scellerato intervento voluto da Sarkozy che liberò la Libia da Gheddafi ma la mise sul piano inclinato che ha condotto l’intera regione sul limite del baratro che oggi si è spalancato. E oggi tocca a noi.
(Ultimo aggiornamento alle 17.00 di lunedì 16 febbraio)
Nella foto di copertina, il premier Matteo Renzi con il Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama a Villa Madama, il 27 marzo 2014 (foto tratta dal profilo Flickr di Palazzo Chigi)
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