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Governo

Cara Lorenzin, il fertility day offende anche gli uomini non solo le donne

di Stefano Iannaccone
1 Settembre 2016

C’è un elemento che risalta agli occhi: la campagna del Fertility day ha messo tutti d’accordo. Raramente si è vista sul web (e non solo) tale unanimità di giudizio: l’iniziativa è stata giudicata un fallimento totale. Anche perché – detto senza mezzi termini – quante saranno le coppie “convinte” a fare figli dopo aver visto quelle cartoline? Certo, la comunicazione non deve solo “invogliare”, spingere a compiere un’azione, ma serve anche ad informare. Il punto è che nel caso specifico, da un punto di vista strettamente comunicativo, nessuno ha appreso le nozioni mediche (che la campagna vorrebbe veicolare) riguardo al tema età/fertilità. Perciò risulta surreale che la ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, rivendichi addirittura che la campagna ha avuto “il merito di accendere l’attenzione sul tema”. Perché questa “gaffe” – se proprio vogliamo definirla così per eccesso di benevolenza – non è frutto di un’affermazione incauta o estrapolata dal contesto. È un progetto studiato e portato avanti da professionisti retribuiti, visto che il totale della spesa è di 38mila e 500 euro.

Del resto, che sia stato un fallimento è diventato chiaro (un po’ troppo tardi, ahiloro) anche agli uffici del ministero della Salute: il sito dedicato al fertility day è stato inaccessibile per gran parte del pomeriggio di ieri (31 agosto), tornando online solo come vetrina dell’appuntamento promosso il 22 settembre, data del lancio del “Piano nazionale della fertilità. Un fatto che sminuisce il tentativo di difesa della ministra della Salute, a cui le cartoline per promuovere il progetto “non hanno fatto una cattiva impressione”. Diciamolo pure: avrebbe ragione se avessero un contenuto ironico. La questione è che “sono serie”. A dirla tutta: quelle cartoline sembravano una parodia pur non essendolo (e rendendo difficile il compito di fare dei meme altrettanto efficaci). Già metterla sul piano della fertilità è sembrato un autogol: parlare di natalità avrebbe posto al centro un problema più ampio, anche da un punto di vista lessicale, per quanto la mossa sarebbe stata contestabile in un Paese che fa davvero molto poco per favorire le nascite, eccezion fatta per il pannicello caldo del bonus bebè.

Ma c’è un’altra questione che merita di essere discussa, al netto della valutazione socioeconomica (riassumibile nella domanda: faccio un figlio, ma come lo cresco avendo lavori precari, stipendi inadeguati, rette degli asili troppo alte e stando in aziende in cui la maternità diventa un problema?), la campagna risulta offensiva verso il principio stesso di famiglia. Che Lorenzin dice di voler tutelare. La donna viene rappresentata come un corpo dedito esclusivamente alla procreazione: e su questo non c’è bisogno di scomodare chissà quali grandi teorie femministe per dire che quelle cartoline sembrano un tuffo negli anni Trenta. Ma spicca anche la totale assenza dell’uomo nella rappresentazione di famiglia. Il padre sembra un suppellettile. Come se avere un figlio non fosse una scelta emozionante da prendere insieme, ma solo una corsa per evitare che la clessidra finisca.

Beatrice Lorenzin
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