Il Partito catodico – V Puntata

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30 Maggio 2021

(segue dalla quarta puntata)

Provincia e piccola impresa, l’Italia profonda che sfugge ai democratici.

Il 1993 fu un anno fortunato per il Centrosinistra. Spazzati via DC e PSI, i candidati Sindaci progressisti vincevano le elezioni dirette (a doppio turno, la formula che porta bene al Centrosinistra, mai proposta a livello nazionale) in tutto il Paese, anche in un comunello pugliese al quale sono sentimentalmente molto legato.

Insediatasi l’amministrazione con un sindaco PDS, egli notò sin dal primo giorno che alcuni disoccupati entravano di prima mattina in Comune e, armati di ramazza, iniziavano a spazzare le strade del corso antistante, chiedendo poi di essere remunerati come avevano fatto per decenni i sindaci democristiani precedenti.

È una microstoria di voto di scambio, più Camilleri che Saviano, ma dà il senso che sul territorio i sindaci postcomunisti sono stati, e sono, vissuti come presidi di legalità, persone perbene, amministratori dediti alla comunità. Non tutti per carità e non solo loro, ma sul territorio la diversità comunista era ed è palpabile. Era e ancora (sempre meno) è anche vero che il PD avrebbe nel territorio la sua massima fonte di ricchezza, pochissimo esplorata.

Il PD è l’unico partito veramente nazionale, nel senso di diffuso capillarmente da Aosta a Otranto, con una presenza organizzata negli enti locali e sul territorio. È stato il partito di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore, e di migliaia di amministratori che da Nord a Sud hanno donato e donano coraggio, competenza e passione alle loro comunità, dalle metropoli ai paesini.

È stato l’unico partito che, se avesse voluto, avrebbe potuto difendere la bandiera della Provincia italiana non come luogo di chiusura tribale, ma come giacimento di cultura, sviluppo, qualità della vita e delle comunità da elevare a modello contro il capitale acefalo e rapace.

Avrebbe potuto, ma non l’ha fatto.

Negli ultimi anni questo capitale unico è stato dimenticato e marginalizzato. La politica si fa e si racconta solo a Roma, al massimo a Bruxelles. Gli amministratori locali sono o i vassalli inquieti che governano le regioni e i capoluoghi (Roma e Milano), o una massa indistinta, di cui ci si occupa di solito per smottamenti o per ordinanze bizzarre. Certo, il PD annovera tra i suoi massimi esponenti Fabrizio Barca, il padre della Strategia Nazionale delle Aree Interne, a riprova di una classe dirigente potenzialmente di prim’ordine, ma il tema della Provincia va al di là degli interventi sul disagio territoriale, e tocca il modello di Paese che si vuole creare e difendere.

L’Italia, sono parole di Barca, è identitariamente definibile innanzitutto come somma di differenze. Differenze, o biodiversità, che trovano nelle provincie l’ambito territoriale, nell’architettura e nell’enogastronomia il paradigma culturale e nella micro e piccola impresa la forma economica distintiva.

Peccato che negli ultimi decenni il Centrosinistra sia stato il principale motore di politiche e pensieri liquidazionisti delle biodiversità italiane. Presidenti del Consiglio di Centrosinistra hanno firmato le leggi che abolivano le province, accorpavano le camere di commercio e obbligavano alla fusione delle banche popolari, tutti acciaccati presidî di governo della Provincia.

Autorevoli rappresentanti e intellettuali di area hanno parallelamente propugnato l’integrazione europea della società e dell’economia italiane attraverso la sistematica soppressione delle nicchie e delle differenze, considerandole sempre incrostazioni del passato. La crescita del populismo sovranista ha prodotto nel campo progressista l’effetto di esacerbare ulteriormente gli animi verso ogni attaccamento culturale alle piccole patrie, automaticamente considerato foriero di orbanismo.

In economia, i governi di Centrosinistra sono sistematicamente stati propugnatori della crescita attraverso la standardizzazione delle pratiche e sono stati tradizionalmente più amici di Confindustria che delle piccole imprese, della Silicon Valley che di Mastro Geppetto, ma anche del maker.

Svenduti al Grande Capitale? Non direi, più che altro disattenti al valore delle dinamiche locali e troppo ansiosi di essere come tutti, europei, globali, anche quando voleva dire non difendere quanto si aveva. Certamente influenzati da constituency urbane per un verso e da garantiti per l’altro. E poi anche troppo sospettosi della non omologazione, della follia maleducata dell’impresa a tutti i livelli, dall’arrabattarsi al sovvertire le regole.

Perché la Provincia italiana e le sue piccole imprese sono (state), e per fortuna continuano a essere, uno straordinario bacino di anarchia feconda e immaginazione, che è più magmatica e sofferente della creatività, meno loft newyorkese e più pensieri in dialetto che producevano tecnologia, bellezza, felicità.

Sono state, e soprattutto sono, anche un soggetto fragile e marginale, come lo è la classe media che faceva da contrafforte all’Italia dei borghi e dell’impresa diffusa.

Un vero partito della Nazione dovrebbe candidarsi naturalmente a dare rappresentanza a questi pezzi della società, fragili e così dinamici, eppure vi ha rinunciato, come ha rinunciato a rappresentare credibilmente il nuovo proletariato del lavoro degli atipici, che di rappresentanza sono privi da vent’anni.

Gli sforzi di settori anche importanti del PD, penso all’esperienza milanese, di legare manifattura a lavoro buono per la classe media che soffre e di forzare la mano agli interessi economici per riconoscergli legittimità e spazio è da un lato assolutamente encomiabile, dall’altro fa arrabbiare perché dimostra che sarebbe un connubio possibile se si volesse, e non si vuole.

Nei giorni in cui Enrico Letta insediava un espertissimo veterano della rappresentanza delle PMI (buon lavoro) nella sua nuova Segreteria, la delegazione PD al Governo si intestava la neutralizzazione di una misura che avrebbe svuotato i magazzini fiscali di crediti in gran parte inesigibili e alleggerito il peso del debito a contribuenti che avevano vissuto tre crisi economiche a strettissimo giro. La bolla social democratica, inclusiva di esponenti di primo piano, ribolliva di indignazione contro l’ennesimo proditorio tentativo di “condono”.

La fiscalità, in un Paese in cui lo Stato costa inutilmente troppo dove non dovrebbe e che non perde occasione di dimostrarsi ferocemente iniquo con chi sbaglia senza essere un farabutto professionista è per la constituency dei postcomunisti ancora un drappo rosso agitato davanti: produce reazioni irrazionali.

Da lavoratore autonomo, che paga da decenni contributi per una pensione che non vedrà mai, penso che su questo il PD abbia ancora moltissima strada da fare. Penso anche, ma mi rendo conto che sia fantascienza, che una forza di governo della modernizzazione equa del Paese dovrebbe pensare, soprattutto dopo la pandemia, a rifondare un patto fiscale pragmatico, che vada oltre la storiella del “pagare meno per pagare tutti”, alla quale non credono nemmeno all’Agenzia delle Entrate.

A proposito di sogni, quale sarebbero dopo queste riflessioni i pilastri di un PD che, da elettore sempre più scettico, voterei più volentieri?

Ph: Bruno Panieri

(continua…)

 

 

TAG: ds, pci, Pd, pds
CAT: Governo, Partiti e politici, Storia

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