Il Partito catodico – IV Puntata

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23 Maggio 2021

(segue dalla terza puntata)

Uomini o Caporali?

Per orientamento filosofico e storico, non credo all’histoire bataille e alla politica come successione e conseguenza delle azioni dei leader o di singoli individui. Alcune persone, nel bene o nel molto male, hanno catalizzato umori e spirito dei tempi, facendo accelerare o precipitare fenomeni, ma la Prima Guerra Mondiale sarebbe probabilmente scoppiata anche se il 28 giugno del 1914 Gavrilo Princip fosse andato al mare e Weimar non sarebbe durata anche se Hitler fosse morto in battaglia qualche anno prima.

La reductio ad personam è un americanismo molto comodo per raccontare gli eventi e, nuovamente, con la rivoluzione digitale (o forse prima con l’erompere della televisione libera) la dimensione del racconto si è mangiata quella dei processi reali e lenti. Si parla solo di leader demiurghi, anche quando in realtà governano assai poco e sono fragilissimi.

I postcomunisti, eredi di un partito che in oltre quarant’anni aveva avuto solo 5 Segretari (quasi tutti morti sul lavoro), hanno conosciuto tantissimi leader, per la gran parte di breve durata e di impronta leggera oltre il proprio mandato. Personalmente, sul podio metterei Achille Occhetto per il coraggio della svolta (il leader che catalizza i processi e dà loro forma), Massimo D’Alema per l’intelligenza cristallina intrappolata tra i cambiamenti del secolo, Walter Veltroni per aver rilanciato la transizione postcomunista unendola al cattolicesimo democratico e aver teorizzato la “vocazione maggioritaria” del PD.

Per il resto, lo dimostra anche la meteora Matteo Renzi, la comunità postcomunista non è mai stata culturalmente tanto legata ai leader quanto ai processi e agli obiettivi verso i quali i leader dovevano guidarla. Ha subìto la verticalizzazione e personalizzazione della politica come un tributo alla modernità, con risultati non buoni.

C’entrano ovviamente anche i meccanismi di selezione della classe dirigente, che per quanto riguarda il PCI erano assai rodati. Anche quando aveva da tempo abbandonato ogni velleità rivoluzionaria, il PCI coltivava minuziosamente la crescita politica dei “rivoluzionari di professione”.

Scuole di partito impegnative (le Frattocchie), esperienza nelle amministrazioni locali, gestione del partito in aree periferiche, passaggio in Parlamento sono stati il cursus honorum di un infinito numero di dirigenti. Chi “si iscriveva alla Segreteria”, ossia bruciava le tappe per particolare talento e leadership, si aspettava di arrivare al vertice per anzianità e un po’ di fortuna, più come progressione di carriera fordista che come ascesa al cielo di Wall Street. Molti leader postcomunisti hanno anche comprensibilmente sofferto l’improvvisa interruzione della scala mobile che avrebbe dovuto portarli ai piani superiori di una carriera fortemente pianificata e non si sono del tutto adattati alle regole tribali, e ben più casuali, della non selezione delle classi dirigenti attuali.

Nel giro di pochi anni, essere stato un diligente e dedito funzionario di partito non solo non era più titolo di merito, ma quasi un marchio d’infamia, e le regole di selezione si erano fatte sempre più lasche e capricciose.

Dalla progressione fordista si è passati alle cordate e ai cavalieri di ventura, o ai finanzieri d’assalto, che arrivavano velocemente portando con sé nuove parole d’ordine, regole e classe dirigente. Dura(va)no poco e poi vengono (venivano) avvicendati, lasciando però in eredità righe di codice mai completamente sovrascritte e alcuni dirigenti nazionali, dei quali a volte si ignora ormai la provenienza e la rappresentatività.

Come risultato, oggi il PD è un partito molto aspramente diviso anche perché la sua classe dirigente è un patchwork di Prima Repubblica, testimonial di stagioni passate, luogotenenti dei capitani di ventura che si sono succeduti e (troppo pochi) amministratori locali. L’identità del partito è così lasca anche perché ciascuna componente ne ha e rivendica una propria. Élite così diverse non si sono mai fuse, al massimo strumentalmente arrangiate e coalizzate, tatticamente, per il tempo necessario di solito a scalzare l’avversario.

Per questo, con sommo smarrimento della comunità, capita spesso di leggere dichiarazioni di esponenti del PD con le quali altri elettori del PD sono in totale disaccordo. Ciò sconcerta nel merito e soprattutto nel metodo, perché segnala una sciatta balcanizzazione e soprattutto una totale mancanza di attenzione verso il valore assoluto della comunità.

Non si tratta di tornare per ogni cosa al centralismo democratico e ai processi decisionali infiniti, ma almeno su temi strategici come le alleanze, le riforme istituzionali e la politica economica non è immaginabile che esponenti del medesimo partito affermino senza problemi cose totalmente dissonanti. Lo fanno perché convinti di parlare ai “loro” e non a tutti i militanti ed elettori. Così però si mina continuamente la lealtà alla comunità politica.

Se i legami identitari sono deboli e la politica liquida, l’insoddisfazione difficilmente si incanalerà nella “protesta” positiva di Hirschman, ma genererà innanzitutto disaffezione oppure defezione. Gli sconfitti del PD, da destra e da sinistra, lasciano la loro comunità politica e provano a fondarne di nuove.

C’è vita fuori dal PD?

Walter Veltroni nel dare vita al PD lo immaginò come partito a vocazione maggioritaria, nel senso che, in un sistema elettorale maggioritario, avrebbe potuto aspirare per dimensioni e rappresentatività ad essere l’equivalente dei Democratici americani o dei Laburisti inglesi.

Il progetto maggioritario non ha purtroppo per molte ragioni mai funzionato: il sistema elettorale, cambiato più volte per convenienza del momento o esigenza di sistemare gli aggiustamenti frettolosi fatti in precedenza, è andato verso il proporzionale e il PD ha perso massa in termini di elettori.

Non solo, il PD ha subito negli anni ben tre scissioni, due a destra e una a sinistra, tutte piuttosto simili nella dinamica hirschmaniana di defezione e nel clamore simbolico contrappuntato dalla scarsa rilevanza numerica (non assommano fra loro nemmeno il 10% dei voti).

Nella parentesi di Renzi, giudicando il partito troppo spregiudicato e tendente a Destra, se ne sono andate figure del calibro di Massimo D’Alema, del precedente Segretario Bersani e del capogruppo alla Camera Speranza. La scissione ha portato alla formazione di un partito di Sinistra, Liberi e Uguali, che mentre scrivo è accreditato di un 3% nei sondaggi sulle intenzioni di voto.

Renzi stesso, terminata la propria parentesi con la sconfitta feroce al referendum e il minimo storico del PD alle Politiche del 2018, ha lasciato il PD per dare vita a una formazione liberal, Italia Viva, che mentre scrivo è accreditata di un 2,5% nei sondaggi sulle intenzioni di voto.

Poco dopo l’uscita di Renzi, in polemica con la scelta della Segreteria postrenziana di allearsi ai 5 Stelle seguendo un’intuizione dell’alleato Renzi (gira la testa, lo so), anche Carlo Calenda, già manager, Parlamentare con Monti, Ambasciatore a Bruxelles, Ministro dello Sviluppo Economico ed Europarlamentare, ha deciso di lasciare il PD per fondare un partito liberal, che mentre scrivo è accreditato di un 3,5% nei sondaggi sulle intenzioni di voto.

Certamente, le scissioni sono state tattiche e dettate da personalismi prima e più che da questioni di piattaforme politiche.

Le piattaforme politiche c’erano, ma si rivolgevano a elettorati potenziali che si volevano in uscita dal PD e che o sono rimasti lì, o hanno preso altre vie, o si sono rivelati chimere.

Nei fatti, un Paese impoveritosi per la crisi economica e bloccato nell’ascensore sociale riserva a forze politiche, laburiste da un lato e liberal dall’altro, meno del 10% dei consensi, condannandole a vivere nella perenne paura che la soglia di sbarramento le escluda dalla rappresentanza parlamentare.

Il voto popolare e proletario arrabbiato che ha lasciato il PD è andato ai 5 Stelle e alla Lega, o si è perso nel non voto. Il voto d’opinione europeista, liberista con juicio, pro impresa e tecnocratico o è rimasto criticamente attaccato ai democratici o si è sublimato allo stato gassoso, stante anche lo stato comatoso di +Europa. Certamente, quest’ultimo sconta una concentrazione in dosi da cavallo nelle redazioni dei media, che inevitabilmente ne amplificano il valore, altrimenti ben misero.

In Francia, il big bang di En Marche di Macron ha terremotato i partiti storici creando ex nihilo una forza maggioritaria, in Italia si continuano a invocare praterie di potenziali consensi, a sinistra e al centro, che non si materializzano mai nell’urna elettorale.

Poiché extra PD nulla salus, i titolari di queste forze politiche non si allontanano mai troppo dalla casa madre. Ne parlano malissimo, drappelli di parlamentari si muovono dentro e fuori, si mantengono componenti organizzate all’interno del corpaccione, si fondano improbabili partiti europei, ma sotto sotto tutti sanno che la comunità, il radicamento territoriale (e i voti) stanno lì. Al massimo, sognano quei bei vertici di maggioranza dei tempi dell’Ulivo, quel potere di veto. A differenza dell’esperienza di Prodi, che naufragò anche per il peso insostenibile dei troppi iattanti cespugli, oggi però quei micro caciccati legati a un leader alla Mastella, o al possedere un simbolo politico glorioso alla Boselli, non esistono praticamente più.

Senza concorrenti credibili, che lo costringerebbero a misurarsi seriamente con i propri limiti e a darsi una mossa, assediato da sorellastre pretenziose dentro e fuori i propri confini e impossibilitato per status ed educazione a procedere per strappi, il PD canta e porta la croce per un’area politica e culturale che certamente esiste, anche al di là dello scarso 30% attribuitole dai sondaggi.

Un terzo scarso del Paese non è certamente poco, e il 40,8% di Renzi era una bolla presto scoppiata, ma sono percentuali ferme da anni e costituite da mille ritagli di interessi e inclinazioni, la ricerca del comune denominatore tra i quali ha determinato l’afonia democratica, il suo confondersi col travertino dei palazzi romani.

Tirato qua e là da interessi diversi, privo di ancoraggi identitari forti, ma troppo pesante per essere partito app, il PD ha scelto di giocarla facile e lineare: difesa a oltranza e acritica delle istituzioni e delle compatibilità, solo battaglie già popolari e poco divisive, rinuncia alla radicalità anche sui (pochi) temi condivisi, manutenzione economica.

Per questo il PD non cala mai troppo ma nemmeno cresce troppo, è una specie di buono del Tesoro a rendita bassissima, e a volte negativa, a seconda dei tassi internazionali.

Potrebbe fare di più, rappresentare di più e incidere di più? Potrebbe, innanzitutto smettendo di ignorare o maltrattare quei territori e quelle classi sociali che hanno avuto solo da perdere dalla globalizzazione e per i quali però il PD è un estraneo, se non un nemico.

Ph: Bruno Panieri

(continua…)

 

TAG: ds, pci, Pd, pds
CAT: Governo, Partiti e politici, Storia

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