In between: Minori stranieri al bivio

15 Dicembre 2018

L’epoca delle immagini sta generando, suo malgrado, una nuova grammatica del racconto. Scatti, polaroid, frame. Che si compongono e scompongono a raccontare storie. Ecco che la vita di Surawa Jaithe, 18enne gambiano, rischia di restar confinata a due momenti.  Un campo da calcetto, Gioiosa Ionica, esterno giorno. Ghetto di San Ferdinando, piana di Gioia Tauro, interno notte. Nella prima immagine, Surawa riceve un premio, un piccolo simbolo del suo periodo nello Sprar. La speranza, lo sguardo al futuro, l’idea di potercela fare. Nella seconda immagine, tra le lamiere, di una notte scaldata solo dalle fiamme che hanno avvolto lui – uccidendolo – e la sua baracca di schiavo contemporaneo, di invisibile, di braccia senz’anima, nome e diritti.  Surawa è morto così, dalla parte sbagliata del bivio che le due immagini pongono in campo.

Questo progetto nasce su quel bivio. Dove le sorti di tanti, troppi Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA) si perdono. Dove si sono incontrati una sociologa e un giornalista, che hanno incontrato tre ragazzi che sono a quel bivio. Tra l’investimento che una normativa internazionale pone in capo agli stati d’accoglienza e la realtà che a 18 anni li pone di fronte a una vita per la quale non sono pronti, spesso, come capita a tanti loro coetanei del mondo.

Questo progetto racconterà tre vite, tre storie differenti, in tre parti. L’arrivo in Italia, l’ingresso nel programma MSNA, il denaro allocato su questi progetti, la competenza dei soggetti ai quali fondi e responsabilità sono affidati, il momento del bivio. Tre storie, un contesto, nazionale e internazionale, un bivio. Che producono un’inchiesta narrativa. Dedicata a Surawa e a tutti quelli che abbiamo lasciato soli.

PUNTATA 1 – MINORI STRANIERI AL BIVIO

di Alessandra Vitullo e Christian Elia

illustrazione di Chiara Spinelli

 

 

Bologna ha il volto accogliente, nonostante tutto, nonostante tutti. È come una persona che magari ci prova ad apparire dura, ma proprio non ci riesce. Bologna, guardando X., Z. e D., che passeggiano per via Indipendenza, ha tutta l’aria di poter essere casa loro, casa di tutti; anche se il Marocco, il Gambia e l’Albania sono nei loro volti, nei loro accenti, nei loro sguardi.

Arrivati tutti e tre minorenni, dopo un periodo in una struttura di seconda accoglienza, vedono avvicinarsi il momento dell’uscita. Un momento che è allo stesso tempo attesa, speranza, abisso e vertigine. Che ne sarà di loro? Che ne è dei MSNA che ogni anno – dopo essere stati oggetto di protezione e di investimento da parte dello Stato italiano – devono diventare soggetti della società che li ha accolti?

Ci ritroviamo tutti in un caffè del centro, dove la cortesia è come un sorriso a mezza bocca. Guardiamo quei volti, allo stesso tempo da bambini e da uomini, quei volti della terra di mezzo, che è fatta di esperienze troppo precoci e di sguardi da ora di ricreazione a scuola. Quali sono le strade che portano a questo bar? Quante strade portano a questo bar?

La Direzione Generale dell’Immigrazione e delle politiche di integrazione censisce i dati sui MSNA nella banca dati istituita ai sensi dell’art. 4 del d.p.c.m. n. 535/1999 e pubblica mensilmente i Report statistici sui numeri. L’ultimo disponibile, che si riferisce a ottobre 2018, e ci offre una polaroid del fenomeno.

Al 31 ottobre 2018, sono 11.838 i MSNA censiti sul territorio italiano. Oltre il 90% di loro, sono di sesso maschile. Quasi il 60% del totale ha circa 17 anni. I primi tre paesi per provenienza sono Albania, Gambia ed Egitto, la regione che ne ospita di più (circa il 40%) è la Sicilia.

Subito dopo un altro numero mette i brividi: quello degli ‘irreperibili’. Le autorità italiane intendono come irreperibili “i minori stranieri non accompagnati per i quali è stato segnalato dalle autorità competenti a questa Direzione Generale un allontanamento. L’allontanamento viene censito nel SIM [Sistema Informatico Minori ndr], fino al compimento della maggiore età o ad un nuovo eventuale rintraccio del minore”.

In questo censimento i minori sono 5.258. Un numero enorme. Dove quelli che vengono dall’Eritrea sono il numero maggiore, affiancati da Tunisia, Somalia e Afghanistan che – in totale – segnano la provenienza di quasi il 40% degli irreperibili. Come se il paese di provenienza, in qualche modo, segnasse un destino, un primo bivio, tra chi ce la farà e chi scomparirà senza lasciare traccia. Un altro bivio, un altro destino, rispetto alle donne. In questo caso, nei dati scorporati per genere, è la Nigeria il paese dal quale proviene la stragrande maggioranza  delle minori non accompagnate (32%).

I numeri aleggiano attorno al sorriso di X., D. e Z. È tutto uno scherzarsi addosso, un giro di cellulari, foto e audio, cuffie e tasti. Sguardi luminosi, ma imbarazzati. Parlano di passato, di presente e di futuro, come tutti. Come se non vedessero, o non volessero vedere, quel bivio. Manca poco: stanno per lasciare i loro centri, stanno per affrontare la strada. Come si può impedire il fallimento collettivo, che porta a un ghetto qualunque?

Ma partiamo dall’inizio. X. è arrivato nel 2017, dall’Albania, con volo diretto Tirana – Malpensa. Viaggiava con il padre e la sorella più piccola, raggiungeva la madre, che lavorava ormai da qualche anno come badante a Milano. Quando racconta come è finito in una comunità per minori, X. si confonde e si perde, forse volontariamente, e la sua storia diventa subito meno chiara. Ma la mancanza di linearità non è rara nei racconti dei viaggi dei MSNA. I motivi possono essere vari: vergogna, tentativo di proteggere qualcuno e molti altri ancora. X. viene abbandonato della madre, sembrerebbe a causa di una lite, e da quel momento non avrà più notizie della sua famiglia.

Parte per Bologna, dove raggiunge un cugino, anche lui minore e già ospitato in una comunità. Si presenta alla Questura di Bologna e, una volta identificato, verrà consegnato alla comunità di seconda accoglienza, dove trascorrerà più di un anno della sua vita, fino al compimento del diciottesimo anno di età.  Lo chiamano il welfare shopping l’arrivo dei minori che vengono dall’Albania. Una tendenza delle famiglie di origine ad incoraggiare l’emigrazione dei figli, per usufruire di beni e servizi di assistenza di qualità, superiori rispetto a quelli del paese di origine. X. e molti altri MSNA come lui avevano ben chiare le opportunità che l’Italia avrebbe offerto loro.

I minori albanesi, come X., scappano solitamente da ambienti criminali, dove le alternative, se non si decide di partire o delinquere, son ben poche. X., che a sedici anni già registrava precedenti penali, voleva una nuova vita, quale che sia la motivazione per l’allontanamento (volontario o forzato) dalla famiglia.

“Mia madre per me non esiste”, ha sempre affermato X., facendo la voce dura, quando le autorità italiane ponevano domande.

Ugualmente, sua madre ha sempre dichiarato che il figlio fosse fuggito e che di lui aveva perso qualsiasi traccia. Capire quanto X. davvero nutrisse un rancore nei confronti di quella donna, o quanto, in realtà, la sua fuga fosse stato un gesto di amore nei confronti di una madre non riuscire a mantenere tutti e due i figli, è impossibile dirlo.

Z. ha 16 anni e viene dal Gambia. Figlio di un venditore ambulante e di una contadina, morti quando Z. era ancora un ragazzino. La famiglia non può occuparsi anche di lui. Partire, a quel punto, è l’unica possibilità. Ha iniziato il suo viaggio nel luglio del 2015. Nel 2016 è arrivato in Italia e nel 2017 viene trasferito nella comunità di seconda accoglienza che lo accompagnerà fino ai suoi diciotto anni. Per arrivare in Libia ha attraversato il Senegal, la Mauritania, il Mali, il Burkina Faso e il Niger. In realtà, la sua destinazione finale era Tripoli e non l’Italia, aveva saputo che da quelle parti c’era lavoro e che si poteva vivere meglio. Ma il viaggio è lungo, anche quando cresci in fretta. Z., a sedici anni, era riuscito a mettere da parte dei soldi, lavorando come capitava, in tutti i paesi che attraversava. Ogni spostamento richiedeva soldi da dare a dei trafficanti, che lo consegnavano ad altri trafficanti.

“Quando sono entrato nel territorio della Libia abbiamo incontrato un gruppo di tre banditi armati, hanno bloccato la macchina, ci hanno fatto scendere. Ci hanno picchiato e derubato di tutto. A una persona che non ha voluto pagare, gli hanno sparato ad un piede. Dopo l’attacco dei banditi, siamo rimasti nel deserto senza cibo né acqua. L’autista, però, non era stato derubato, solo i passeggeri lo sono stati, forse era un complice, ma non lo so.”

Andare avanti, comunque. Sempre. Arrivato in Libia, Z. si rende conto che la situazione è totalmente fuori controllo. Decide quindi di mettersi nelle mani di un altro trafficante per potersene andare e raggiungere l’Italia: “Ho pagato la somma richiesta con i soldi che mi erano rimasti e dopo aver atteso alcuni giorni al foyer sono stato portato alla connection”.

Quella che Z. chiama connection, sono in sostanza i lager libici dove vengono trattenuti i migranti, fino a che non decidono di imbarcarli verso il Mediterraneo.

“Nel campo c’è un piccolo negozio dove si può comprare da mangiare e da bere, vicino al negozio c’è un piccolo bagno riservato per le donne. Per gli uomini c’è un bidone all’aperto dove raccogliere gli escrementi. Se non hai i soldi per comprare da mangiare e da bere, non mangi e non bevi. Il campo è gestito dai trafficanti libici, sono armati e controllano che nessuno scappi. Nella connection è vietato parlare ad alta voce, se la guardia ti vede parlare con qualcuno ti picchiano, o ti portano al bidone degli escrementi e ti buttano l’acqua e gli escrementi addosso. Le donne possono cucinare con le cose comprate nel negozio, ma gli uomini non possono aiutarle. Se un uomo aiuta una donna a cucinare viene picchiato. Io stesso sono stato picchiato perché parlavo con altre persone, mi hanno messo per terra e mi hanno picchiato con i manganelli, erano due persone. Certe volte picchiano tutti, uno per uno, perché sentono le persone parlare ma non sanno chi è stato, e quindi picchiano tutti quanti.”

Z. riesce a lasciare quel posto dopo quattro mesi e insieme ad altre 120 persone tra donne e bambini, si mette in viaggio verso l’Italia. Sbarca il 29 luglio del 2016, identificato, ottiene lo status di rifugiato politico. Ed è arrivato in questo bar, a raccontare la sua storia, mentre guarda sempre la tazzina che ha davanti a sé, forse per nascondere la sua timidezza.

D. porta una storia differente da quella dei suoi compagni in comunità. Del resto, anche se tutti sono “etichettati” come MSNA, ognuno di loro porta un bagaglio di esperienze totalmente  diverse.

D. è il più istruito, il più consapevole di quello che lo avrebbe aspettato e di cosa avrebbe voluto fare una volta partito. Figlio di un agricoltore, in Marocco, aveva studiato fino alla terza superiore di quello che può essere equiparato a un nostro liceo scientifico. Critico della situazione politica del suo Paese, e consapevole dei motivi che lo hanno spinto a partire, D. non manca mai di raccontare i livelli di corruzione e ingiustizia del Marocco.

Una prospettiva a testa bassa, sempre. Una prospettiva claustrofobica. Dalla quale scappare, anche lui come Z., passando per la Libia. Ma il suo è un altro tipo di viaggio, che definisce ironicamente un “viaggio in prima classe” in confronto a quello dei “neri d’africa”, mentre si scambia sguardi allo stesso tempo complici e provocatori con Z.

Ha visto con i suoi occhi le torture e ha sentito con le sue orecchie le continue sparatorie, che avvenivano nei “centri di raccolta” libici. Ma ai “maghrebini” veniva garantito un pasto al giorno; normalmente la loro attesa, prima di salpare per l’Italia, durava meno di una settimana; e la somma accordata per il viaggio veniva trattata prima della partenza, senza che subisse rincari durante il tragitto.

D. racconta che qualsiasi cosa, in viaggi come questi, diventa materiale di trattativa per i trafficanti, per decidere della sopravvivenza del disperato viaggiatore. Perfino i posti che venivano assegnati sull’imbarcazione, potevano diventare determinanti per il successo, o meno, della traversata. Stipati in piccolissime imbarcazioni, seduti sul bordo della barca, l’uno accanto all’altro, con le gambe divaricate, e in mezzo a queste veniva messo a sedere un altro compagno. Ovviamente quello lì in basso era il posto peggiore, il posto destinato agli “africani”. Se solo qualcuno provava a ribellarsi, o a muoversi, gli scafisti lo colpivano subito in testa con il calcio di fucile, oppure semplicemente lo buttavano fuori dalla barca. Arrivato in Italia, D. si presenta alla questura di Modena, e lì viene portato in una casa di seconda accoglienza. Subito è guerra tra gruppi: minori nord africani, contro minori albanesi. D. viene coinvolto in una rissa, che ne causerà l’allontanamento da Modena e l’arrivo in un appartamento per l’autonomia a Bologna, dove compirà i suoi diciott’anni. Nella stessa comunità, verrà, però, trasferito anche il ragazzo albanese con il quale D. aveva avuto la colluttazione. Puniti entrambi con la convivenza forzata, il metodo rieducativo funzionerà, e i due ragazzi non avranno più alcun tipo di problema.

Tre storie, tre orizzonti, sotto il tetto della stessa comunità, sotto il cielo dello stesso paese d’accoglienza, nella rete della stessa normativa. Una rete con molti buchi.

Un rapporto dell’ong Save The Children, dal titolo che non lascia spazio a dubbi, Piccoli Schiavi Invisibili, racconta di questi buchi, che spesso diventano neri.

“I minori vittima di schiavitù e grave sfruttamento nel mondo sarebbero, secondo le stime, un milione e 200 mila. Una vittima di tratta su cinque è un bambino, o un adolescente. Una realtà drammatica, che resta però fortemente sommersa, registrando, al di là delle stime e delle proiezioni, un numero molto inferiore di casi realmente identificati. Basti pensare che gli ultimi dati ufficiali disponibili parlano di 15.846 vittime di tratta accertate, o presunte tali, in Europa, di cui il 15% è un minore. In Italia, sono 1.125 le persone inserite in programmi di protezione e il 7% di loro ha meno di 18 anni”.

Il minore che arriva in Italia ha, infatti, spesso necessità urgente di lavorare per estinguere i debiti che la famiglia ha contratto nel paese di origine per sostenere i costi del viaggio, o per i debiti fatti da soli per andare avanti. Una pressione enorme per il MSNA, che lo rende vulnerabile, oggetto di facile interesse per la criminalità organizzata. I maschi diventano manodopera a basso costo. Spacciatori il cui “stipendio” è nettamente inferiore a quello dei ragazzini italiani. Gli autoctoni costano 50 euro e un fisso mensile di 400, 500, 600 euro. Il minore straniero la metà. Le minorenni, in troppi casi, finiscono nella prostituzione.

“Nell’intera Unione 15.8467 vittime accertate o presunte. Di queste ultime, il 76% sono donne e il 15% bambini e adolescenti. Rispetto al totale, il 67% è vittima di prostituzione forzata, prevalentemente di origine nigeriana e rumena, mentre il 21% ha subito sfruttamento lavorativo soprattutto in ambito agricolo, manifatturiero, edile, dei servizi domestici e della ristorazione. I quattro principali ambiti in cui molti minori stranieri sono impiegati in condizioni servili o para-schiavistiche, sono l’agricoltura, la ristorazione, la prostituzione e l’accattonaggio”.

Z., X. e D. raccontano, si prendono in giro, immaginano e ricordano. Anche qui, sul bivio, dove si gioca la partita tra il destino dei troppi Surawa delle nostre città e delle nostre campagne e il lavoro di uno Stato e delle sue istituzioni, delle sue realtà del terzo settore e di una società che se salvasse loro, potrebbe salvare se stessa.

(fine puntata 1/3)

TAG: minori stranieri non accompagnati
CAT: immigrazione

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