IL CROLLO DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE VISTO DAL BAGNO DI CASA
Questa estate, nella casa sul lago messami a disposizione da un ottimo amico, la vecchia lavatrice ha tirato le cuoia e con la cortesia che contraddistingue il mio ospite nel giro di una giornata una nuova, fiammante lavatrice in versione carica dall’alto è comparsa nel bagno padronale. La guardo mentre mi sbarbo, la riconosco e penso a quanta passione misi nella sua progettazione insieme ai miei collaboratori, nella realizzazione degli impianti, nella collaborazione con l’università di Brescia che portò ad un paio di piccoli brevetti, al disegno 3D, al fast tooling e al fast prototyping che per la prima volta vennero applicati in quel progetto. Un lavoro innovativo, una distinta base razionalizzata, un valore in più per il committente da condividere con il cliente. Era il 2001, potrei essere contento nel pensare che tredici anni dopo il prodotto tenga ancora il mercato ma…. Tredici anni per un bene di consumo durevole sono un tempo siderale e nel frattempo il committente ha venduto non la lavatrice ma l’azienda ad una multinazionale estera che in quegli anni pensava invece di acquisire lui.
Stamattina mentre affondavo il pennello nel sapone da barba stavolta a casa mia ascoltavo i dati, disastrosi, della produzione industriale di Settembre. Nessuna sorpresa, per carità: chiunque viva nel mondo reale e non sia chiamato a discutere del nuovo presidente della Repubblica Italiana sa di cosa si parla. La gelata ha molte ragioni, in primo luogo l’andamento dei nostri mercati in esportazione. Le sanzioni alla Russia hanno un impatto tremendo in via diretta per il nostro export e in via indiretta attraverso quello tedesco, dato che la Germania era il primo partner commerciale dell’amico Putin ed è scivolata al quarto posto nel giro di una manciata di mesi. Stesso ragionamento vale per la Turchia, il cui peso è cresciuto notevolmente negli ultimi anni e che si trova ad affrontare le pesanti perturbazioni nel mercato mediorientale suo naturale sbocco dove era divenuta un paese leader anche grazi ai nostri investimenti. Le quote di export verso paesi in conflitto, in primo luogo l’area mediterranea, valgono circa l’8% delle nostre esportazioni e se aggiungiamo che la Cina quest’anno non crescerà, cioè nei fatti calerà, ecco spiegata gran parte del dato negativo della produzione industriale. Infine, l’euro debole sul dollaro potrebbe anche aiutare sul mercato statunitense ma i provvedimenti della banca centrale giapponese hanno svalutato lo Yen molto più velocemente e con maggiore intensità rispetto a quanto operato dalla BCE e anche le altre monete hanno svalutato sul dollaro in modo più significativo.
La morale è che nessuna delle poche azioni sin qui messe in campo potranno aiutare il sistema manufatturiero a sopravvivere.
A ciò aggiungiamo gli aspetti strutturali: due erano le filiere meccaniche importanti cinque anni fa, l’automotive e le house appliances. Dell’automotive non parlo; dell’elettrodomestico posso solo pensare che i gruppi dirigenti delle multinazionali italiane del settore siano stati ben poca cosa e che alle famiglie proprietarie, saldamente immanicate con la politica di Roma e incensate da quella locale, verrebbe voglia di entrargli in casa ed urlare le parole di Cromwell “Andatevene, e che non si sappia mai più nulla di voi”. Naturalmente col rimpianto di averle riempite negli anni di quattrini pubblici e di averle viste delocalizzare in Polonia per la convenienza fiscale offerta da quel Paese, sotto lo sguardo compiaciuto dei presidenti del consiglio italiani che andavano a visitare il nuovo plant.
Esaurita la favola delle multinazionali tascabili come campioni nazionali rimane sul campo una struttura industriale pulviscolare, quella che da anni i maestri della strategia accusano di non voler crescere, di essere inadatta alla globalizzazione, di non fare innovazione (e qui leggero attacco di nausea) Dicono cosí per “mancanza di ignoranza”, perché è vero che se il pulviscolo fosse un fine dicitore avrebbe calcolato che suicidio sia fare azienda in Italia da una decina di anni: purtroppo o per fortuna l’azienda pulviscolare è qualcosa di più di un lavoro, è un progetto di vita e non si molla facilmente.
Ma, tralasciando per un attimo la dimensione sociale, regge un paese industriale sul pulviscolo? Per la prima volta, dopo trentanni passati a guardare con sufficienza gli innumerevoli profeti di sventura che dai giornali davano il pulviscolo per morto un giorno sí e l’altro pure, sono costretto a dire che no, non si regge e qualcosa dobbiamo inventarci. Il Jobs Act e la rimodulazione dell’Irap sono pannicelli caldi: qui stiamo asfissiando l’ultima formula manufatturiera privata che ci è rimasta e giorno dopo giorno i dati sulla produzione industriale non caleranno solo perché rallenta la produzione delle frese ma perché si chiudono i cancelli. Ripartire poi sarà quasi impossibile e non so se Matteino se ne renda conto fino in fondo.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.