Il lunedì non arriva più di domenica pomeriggio (o forse sì)

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22 Marzo 2020

Domani è lunedì, ma questa domenica pomeriggio non è come tutte le altre.

Quasi nessuno oggi può dire che «Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio», come recitava il titolo del romanzo che Massimo Lolli pubblicò nel 2009 per i tipi della Mondadori, perché sono davvero poche le persone che domani andranno a lavorare. Ieri sera, siamo andati a letto dopo aver ascoltato la diretta del Primo Ministro Conte che annunciava la decisione di «chiudere, nell’intero territorio nazionale, ogni attività produttiva che non sia strettamente necessaria, cruciale, indispensabile a garantirci beni e servizi essenziali».

Un rincorrersi di DPCM che non aiuta chi lavora

Il DPCM 22 marzo 2020, nella versione che circola in rete da metà pomeriggio di oggi, ha reso definitiva la lista dei settori in cui le imprese possono rimanere aperte e di quelle devono chiudere.

Dallo scorso 23 febbraio 2020, è l’ottavo decreto del Presidente del Consiglio dei ministri che illustra e aggiorna le disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante «Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19», e che si aggiunge all’ordinanza del ministro della Salute del 20 marzo 2020.

Per chi ha un lavoro o un’impresa, il susseguirsi di queste disposizioni a così breve distanza:

  • da un lato lascia intendere che la situazione sanitaria, oltre a peggiorare, stia anche sfuggendo di mano, e
  • dall’altro fa sorgere qualche dubbio sull’adeguatezza delle figure di vertice che guidano i processi decisionali.

La titubanza dei primi giorni era accettabile.

Di fronte all’emergenza di un contagio rapido, esteso e capillare mai visto prima, è (quasi) inevitabile che, almeno all’inizio, si proceda con prudenza, evitando di prendere decisioni eccessivamente penalizzanti (in termini di consenso, intendo) e senza un’adeguata concertazione con tutte le Parti Sociali.

Lo stillicidio di DPCM è meno comprensibile.

La sequenza di limitazioni, progressivamente più ampie e restrittive, annienta i processi vitali della società e delle imprese: crolla la fiducia, cresce la paura, tutti posticipano acquisti e investimenti, pochi ti fanno credito, le filiere di fornitura si interrompono, i processi produttivi si bloccano e così via.

In queste situazioni, c’è il concreto rischio che si inneschi un «effetto domino» che trascina nella crisi anche i territori e le realtà meno colpite e più solide, a meno che non arrivi un altro shock esterno in direzione contraria. Spetta alla politica e a chi ci governa promuoverlo deliberatamente, se necessario anche prendendo decisioni drastiche e impopolari.

Quello che non si dice sullo smartworking

Se c’è un tratto che accomuna tutti i DPCM, questo è l’esclusione dello smartworking dalle restrizioni: nel DPCM del 22 marzo, si scrive che «le attività produttive che sarebbero sospese ai sensi della lettera A possono comunque proseguire se organizzate in modalità a distanza o lavoro agile».

Solo chi è nelle condizioni di fare smartworking, oggi ha potuto dire che «Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio».

Ma non si faccia l’errore di pensare che lo smarworking sia la via per limitare i danni.

Non mi riferisco solo all’ovvia considerazione che, per chi lavora nelle imprese che chiuderanno per due settimane per effetto del DPCM del 22 marzo, anche lo smartworking perde parte del suo significato.

Il punto chiave è che fino ad ora si è dato per scontato che le persone in smartworking siano veramente in grado di lavorare a casa:

  • chi, perché magari ha figlie e figli in età scolare che hanno bisogno di essere seguiti
  • chi, perché non ha adeguati spazi per lavorare in casa.

L’assenza di queste variabili nei commenti sulle virtù quasi taumaturgiche dello smartworking va rapidamente rimossa.

Per ora ci ha pensato qualche impresa americana con delle filiali in Italia, inviando un questionario alle persone in smartworking, sia per raccogliere informazioni sulla salute sia per chiedere informazioni su spazio e tempo.

Ce n’è una che la dice lunga sulla rilevanza di questo tema. Eccola.

«C’è qualche ostacolo che può impedire lo svolgimento delle attività della giornata lavorativa quando lavori da casa?»

Tra le alternative di risposta, oltre alle ovvie opzioni su risorse e connettività, ci sono anche quelle che riguardano l’eventuale condivisione di spazio con altri familiari (e quindi di non avere abbastanza spazio per il lavoro) e il dover dedicare del tempo a seguire altri familiari (che viene tolto al tempo di lavoro).

Chiaro il concetto?

Tornando al libro di Massimo Lolli

Il riferimento al libro di Massimo Lolli non dipende solo dal fatto che oggi ho volutamente ripreso in mano il libro pensando ai milioni di persone che da domani staranno forzatamente a casa senza poter fare smartworking.

Il punto è che per molte persone, il futuro potrebbe essere come quello di Andrea Bonin, il protagonista del libro di Lolli. Era un manager di successo, uno di quelli che andavano a mille e con un lavoro tale che «il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio».

Poi perse il lavoro, lo cercò per molti mesi senza successo. Per Bonin, la ragione era l’età non più verde. Per milioni di persone, invece, potrà essere che non ci sono più posti di lavoro.

Chiaro il concetto?

TAG: coronavirus, Grandi imprese, Lavoro
CAT: manifattura

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