“Jeff Bezos, un lascito di sfruttamento” di Paris Marx

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14 Settembre 2021

Jeff Bezos sta lasciando il suo incarico di ad di Amazon, dopo aver accumulato un patrimonio di quasi 200 miliardi di dollari. È un tentativo di recuperare credibilità, ma non potrà sottrarsi al lascito di sfruttamento che lascia dietro di sé.

PARIS MARX, marzo 2021, traduzione di Marco Veruggio

Jeff Bezos, che forse conoscerete come “l’uomo più ricco del mondo” o “quel tizio che una volta mangiò un iguana”, sta per dare le dimissioni dal suo incarico di ad di Amazon dopo 27 anni ai vertici o forse invece è più corretto dire che  assumerà l’incarico di presidente esecutivo, che vuol dire che avrà ancora un ruolo influente nelle decisioni dell’azienda, ma non sarà più il volto pubblico di Amazon. Tuttavia non c’è ragione di credere che Amazon diventerà il cordiale monopolista che il sorriso impresso sul suo logo sembra indicare.

Con Bezos alla guida Amazon è cresciuta da libreria online nata in un garage di Bellevue, nello Stato di Washington, fino a diventare una delle più grandi società quotate nel mondo, che non solo controlla importanti piattaforme di e-commerce e di cloud, ma ha esteso il proprio raggio d’azione a un crescente numero di settori economici. Tuttavia è importante non farsi trarre in inganno dalla ricostruzione trionfalistica della storia delle aziende tecnologiche e dei loro amministratori delegati, un tipo di narrazione diventata fin troppo comune da quando, negli anni ’90, esplose il business di internet.

Spesso si dice che Amazon sia stata avviata a Washington con l’obiettivo di svilupparsi vicino a Microsoft e tentare di attrarre alcuni dei suoi talenti e, se ciò è in parte vero, difficilmente questo fu il fattore decisivo di quella scelta. Prima di fondare la società, nel 1994, Bezos era vicepresidente anziano di un fondo speculativo e si dice che volle essere sicuro che la prima casa presa in affitto a Bellevue avesse un garage, così da poter alimentare quel tipo di mito fondativo che ci si aspetta da una compagnia tecnologica.  Bezos non era affatto povero e sapeva in che modo  ridurre al minimo il prelievo fiscale sui propri guadagni.

Le vera ragione per cui Bezos fu attirato a Washington, in realtà, fu proprio che l’ordinamento di quello Stato non prevede imposte sulle persone fisiche né sulle imprese e, all’epoca Amazon doveva versare imposte solo sulle vendite concluse negli Stati in cui aveva sedi. Washington, che nel 1994 aveva cinque milioni di abitanti, era il trampolino ideale da cui spedire agli altri 260 milioni di americani dei libri, articolo scelto non perché Bezos vi fosse particolarmente affezionato, ma perché i libri potevano essere comprati in grandi quantità, erano facili da spedire e all’epoca le librerie indipendenti erano state decimate, lasciando un mercato pronto a essere conquistato.

Come si crea un monopolio

Man mano che iniziò ad attrarre clienti ed espandere l’offerta di prodotti in vendita Amazon assunse un’attitudine differente alla crescita. Invece di cercare di racimolare profitti il più rapidamente possibile Bezos scelse una strategia più a lungo termine, reinvestendo i guadagni di Amazon nell’attività al punto che questa chiuse il suo primo trimestre in attivo soltanto nel 2001 e il primo bilancio annuale in attivo nel 2003. E anche negli anni a seguire i margini di profitto della società, mentre il suo impero si allargava, restarono ridotti.

Si trattò senza dubbio di una grande strategia di sviluppo, ma non priva di conseguenze. Lavorando in perdita per un decennio Amazon riuscì a fornire beni e servizi sotto costo e a emarginare la concorrenza e dominare i mercati in cui operava. Un compito che divenne più facile man mano che l’azienda cresceva, come mostra il caso Diapers.com.

Nel 2009 Bezos osservò che nelle famiglie con bambini la fama di Diapers.com [società specializzata nella vendita di prodotti per bambini, diapers vuol dire “pannolini”] stava guadagnando, per cui Amazon organizzò un incontro coi soci fondatori chiedendo loro di cederle la società. Di fronte al loro rifiuto Amazon fissò sui pannolini e gli altri prodotti per bambini prezzi inferiori del 30% rispetto a quelli dei concorrenti e quando Diapers.com adeguò i propri, i prezzi su Amazon scesero ulteriormente. Amazon in sostanza stava usando i profitti ricavati dalla vendita degli altri articoli per vendere prodotti per bambini sotto costo in modo che Diapers.com fosse costretta ad accettare la sua proposta di acquisto o ad andare fuori mercato. La società di Bezos introdusse persino un servizio chiamato Amazon Mom per offrire quel genere di articoli a prezzi ulteriormente scontati fino a che, nel novembre del 2010, Diapers.com alla fine fu venduta ad Amazon. Dopo poco Amazon Mom fu sospeso e i prezzi tornarono ai livelli ordinari.

L’abitudine di offrire beni e servizi sotto costo allo scopo di mettere fuori gioco i concorrenti viene chiamata predatory pricing [politica dei prezzi aggressiva] ed è una tattica anticompetitiva. Negli anni Bezos ha ripetutamente abusato della forza accumulata da Amazon grazie alle offerte a basso costo implementate per spingere la concorrenza fuori mercato, spremere i venditori che usano la sua piattaforma e ottenere sussidi dai governi degli Stati americani. Amazon è già sotto inchiesta sia negli USA che in Europa per comportamenti anti concorrenziali, ma il suo successo ha avuto anche conseguenze più profonde.

Il modello fondato sulla prassi di offrire servizi a prezzi inferiori al mercato allo scopo di spazzare via la concorrenza e stabilire una posizione monopolistica nella Silicon Valley è diventato un approccio strategico – un approccio col quale chi investe su queste aziende finisce per bruciare miliardi su miliardi fino a che non ne raccoglie i frutti.  E se i consumatori nel periodo in cui l’azienda all’attacco sta spazzando via i concorrenti possono trarne qualche beneficio, come è capitato alle famiglie con bambini nel breve lasso di tempo in cui Amazon cercava di annientare Dispers.com, ai propri dipendenti, invece, i monopolisti di solito non riservano molti riguardi.

Sfruttare una forza-lavoro in crescita

Nella lettera in cui Bezos annuncia il suo nuovo incarico egli dichiara che “l’invenzione è all’origine di ogni successo”, ma qualcuno potrebbe contestargli tale affermazione. Comunemente si attribuisce la crescita di un’azienda, soprattutto nel settore tecnologico, alla visionarietà del suo leader e a una pretesa eccellenza tecnica, ma Amazon non sarebbe nulla senza i suoi 1,3 milioni di lavoratori, la maggior parte dei quali immagazzina, smista e anche consegna i suoi pacchi, l’attività che rappresenta il  core business aziendale.

Le cronache relative alle terribili condizioni di lavoro  nei magazzini Amazon sono tutt’altro che una novità. Già nel 2011 i lavoratori denunciarono l’azienda per non aver installato l’aria condizionata in molti dei suoi magazzini, costringendoli a operare in ambienti surriscaldati e provocando alcuni svenimenti durante il lavoro. Di recente poi è diventato chiaro anche che dai lavoratori di Amazon ci si aspetta il raggiungimento di obiettivi di produttività impossibili, che si esercitano pressioni su di loro affinché saltino le pause per andare in bagno e che sono soggetti a carichi di lavoro tali che gli infortuni sono quasi il doppio rispetto agli standard del settore negli USA. Ma ogniqualvolta i lavoratori hanno cercato di reagire a questa situazione Amazon li ha contrastati con forza. L’azienda, infatti, è nota per le proprie tattiche antisindacali e durante la pandemia è stata accusata di aver assunto agenti della famigerata agenzia Pinkerton  per spiare dipendenti, gruppi ambientalisti e sindacalisti. Si è scoperto anche che monitorava alcune mailing list interne e gruppi Facebook privati utilizzati dai lavoratori per organizzarsi.

In questi anni Amazon ha anche creato una delle reti logistiche più vaste negli USA, ma a differenza delle Poste degli Stati Uniti (USPS), utilizza manodopera non sindacalizzata e anche una serie di ditte d’appalto e di lavoratori autonomi che svolgono il servizio di consegna. Il gruppo di Bezos già tende a trainare verso il basso i salari dove colloca i propri centri di distribuzione. Tuttavia attraendo sempre più fattorini nella propria rete di consegne non sindacalizzata non solo fa diminuire i salari, ma minaccia anche un’istituzione pubblica che da sempre costituisce una fonte di lavoro stabile per i neri americani [le poste appunto].

Bezos si presenta come un imprenditore attento ai propri lavoratori e nella lettera citata scrive che Amazon ha usato la propria “stazza per introdurre in azienda alcuni importanti temi sociali” tra cui il “nostro salario minimo a 15 dollari l’ora e gli impegni sulla questione climatica”, ma non è altro che propaganda aziendale. Il salario minimo a 15 dollari non è che una risposta alla pressione coordinata di lavoratori e legislatori e dovuta al fatto che molti dipendenti devono ricorrere ai buoni alimentari. L’aumento dei salari ha allontanato dall’azienda qualche sguardo critico, anche se alcuni lavoratori hanno dichiarato di stare peggio di prima, perché nel frattempo Amazon ha tolto loro altri benefit.

Il crescente fermento sindacale in Amazon dovrebbe essere una testimonianza sufficiente che Bezos non è stato un buon capo. L’azienda non ha tenuto fede agli impegni sul clima e ha persino licenziato alcuni impiegati impegnati nella causa ambientalista.  Durante la pandemia non ha protetto i suoi dipendenti spingendoli a mobilitarsi in tutti gli Stati Uniti. Ha anche cercato di screditare un lavoratore licenziato per attività sindacale, ma quando sono stati divulgati gli appunti di una riunione interna quell’operazione è scoppiata nelle mani dei dirigenti. I lavoratori del magazzino di Bessemer, in Alabama, alla fine del mese voteranno sulla costituzione del sindacato interno [come è noto la proposta è stata bocciata, ma il voto potrebbe essere ripetuto a seguito del ricorso per il comportamento antisindacale dell’azienda] e l’azienda si sta battendo contro con le unghie e coi denti.

Salvare un’immagine screditata

Nei prossimi anni Amazon dovrà probabilmente affrontare più sfide che mai. L’attivismo dei lavoratori nel settore tecnologico sta crescendo e ci saranno certamente nuovi tentativi di sindacalizzare i suoi magazzini in futuro, soprattutto se i lavoratori a Bessemer vinceranno. L’azienda presumibilmente dovrà anche affrontare alcune cause antitrust negli USA – forse anche in Europa – e  Bezos uscirà dai riflettori prima che ciò accada.

Verso la fine della sua lettera l’ad ha spiegato che assumere l’incarico di presidente esecutivo gli darà “il tempo e l’energia di cui ho bisogno per concentrarmi sul Fondo Day 1, il Bezos Earth Fund, Blue Origin, il Washington Post e le mie altre passioni”. Insomma, mentre Amazon va avanti con l’ostinata filosofia che Bezos le ha trasmesso, lui può dedicarsi ad altre imprese e cercare di alleggerire la propria posizione.

Nel 2018 a Bezos è stato chiesto cosa vorrebbe fare col suo patrimonio miliardario e la sua risposta è stata: “Il solo modo che vedo di utilizzare tutta questa ricchezza è tradurre i successi maturati in Amazon nel campo dei viaggi spaziali. Fondamentalmente è questa la strada”. Nonostante un patrimonio netto da 130 miliardi di dollari, abbattutosi dopo il suo divorzio da MacKenzie Scott nel 2019 e rimbalzato a circa 200 miliardi durante la pandemia, i suoi occhi non si sono posati sulla crescente crisi climatica, sulle diseguaglianze sempre più ampie o sulla crisi degli alloggi che sta ghermendo la capitale dell’impero Amazon, Seattle, bensì sulle stelle.

Tuttavia ciò non deve sorprendere. Amazon è stata creata a Washington per limitarne le uscite fiscali ed è stata giudicata il gruppo tecnologico più spregiudicato per la sua strategia di elusione delle imposte. Ha combattuto con forza per respingere i tentativi di farle pagare le tasse sulle vendite concluse al di fuori dallo Stato di Washington, cedendo solo nel 2017, e più recentemente si è battuta per evitare di dover versare una modesta tassa alla città di Seattle, utilizzata per finanziare programmi di aiuto ai senzatetto, e spesso riesce persino a sottrarsi integralmente al fisco federale.

Bezos sembra aver imparato la lezione impartita da Bill Gates dopo che il suo nome in questi anni è stato trascinato nel fango. Gates è stato vituperato dopo la causa antitrust contro Microsoft e per riabilitare la propria immagine ha scelto la filantropia. Anni dopo e dopo aver versato milioni ai grandi gruppi editoriali Gates è stato ricoperto di lodi dalla stampa per il modo in cui sta salvando il mondo spendendo il proprio denaro, un’immagine in realtà distorta del modo in cui egli impiega la sua vasta ricchezza e del suo vero impatto.

Bezos sembra sul punto di seguire lo stesso schema. Ha già distribuito denaro a gruppi di senzatetto tramite il suo Day 1 Fund alle organizzazioni che di attivisti per il clima attraverso Earth Fund. Ma le donazioni nascondono il problema principale

Lottare per il futuro

In quanto uomo più ricco del mondo Bezos esercita un immenso potere e alla fine, come suggeriscono le sue osservazioni sui viaggi spaziali, userà la propria ricchezza per difendere e far progredire i propri interessi. Dopo decenni di tagli alla tasse i governi nel mondo sono stati privati delle entrate necessarie ad affrontare le crisi ricorrenti del XXI secolo e, nonostante quanto i loro uffici stampa e un servile sistema mediatico ci raccontano, i miliardari non possono riempire quel vuoto.

Il potere e la ricchezza che Bezos brandisce sono l’effetto immediato del brutale sfruttamento di oltre un milione di lavoratori trattati non come esseri umani, bensì come ingranaggi di una macchina che non si fermerà fino a che non sarà possibile sottrarsi alla sua onnicomprensiva rete di piattaforme e servizi. Perciò vanno respinti non solo i suoi tentativi di usare la propria discutibile ricchezza per riscrivere la propria biografia, ma anche il suo inevitabile desiderio di collocare il nostro orizzonte in un futuro in cui gli interessi dei miliardari prevalgono su quelli del resto dell’umanità.

Mentre abbandona il suo incarico da amministratore delegato dovremmo ammettere quanto è vergognoso aver guadagnato una cifra stimata in 90 miliardi di dollari durante una crisi globale in cui la disoccupazione negli USA è schizzata a livelli mai più ripetutisi dopo la Grande Depressione e più di 50 milioni di americani hanno sofferto la fame. Il suo nome dovrebbe diventare piuttosto sinonimo della crudeltà di un sistema a cui egli ha contribuito e di cui si è avvantaggiato e la sua stessa esistenza è la prova della necessità di smantellare la struttura economica del capitalismo che innanzitutto permette a queste estreme diseguaglianze di  esistere. No, Jeff Bezos non merita alcuna riabilitazione.

PARIS MARX è un ricercatore canadese esperto di tecnologia e urbanistica, socialista, collabora con NBC, CBC, Jacobin, The Tribune, ma i suoi articoli sono tradotti in tutto il mondo, inclusi Italia (Internazionale e Jacobin), Turchia e America Latina. Conduce il podcast settimanale “Technology won’t save us”, in cui analizza in modo critico la visione della società futura della Silicon Valley. Per la prossima estate è attesa la pubblicazione del suo primo volume, Road to nowhere. Silicon Valley and the future of mobility, (Verso Books). Ringrazio Paris Marx per aver autorizzato la presente traduzione dell’articolo pubblicato per la prima volta su Jacobin il 3 marzo 2021. Le note tra parentesi quadre sono mie.

Immagine tratta da Flickr.com (Daniela Oberhaus, 2019, CC_BY_2.0)

TAG: amazon, jeff bezos, Paris Marx
CAT: Innovazione

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