Reddito di base: andare oltre la polemica politica costa “solo” 100 milioni

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8 Marzo 2017

Basterebbero 100 milioni di euro per mettere in competizione reddito di inclusione sociale, reddito di cittadinanza e reddito di inclusione lavorativa.  Come in Finlandia. Proviamoci, a partire da Milano. Aiuterebbe tutti ad andare oltre la polemica politica, acquisire dati e migliorare le proprie proposte, sulla base di evidenze concrete.

Reddito mimimo garantito, reddito di inclusione sociale, reddito di cittadinanza, reddito di base, lavoro di cittadinanza. E’ esponenziale ormai la frequenza con cui queste proposte entrano nel dibattito politico italiano, non senza qualche confusione.

Sino a che le proposte venivano dal mondo del sociale (il reddito di inclusione sociale promosso dall’Alleanza Contro le Povertà in Italia) il livello di attenzione prestato a questo tipo di discorsi è stato, occorre riconoscerlo, non elevatissimo. Il tema dell’attenzione agli ultimi scaldava i cuori a parole, ma ha generato poche azioni concrete. Ai tempi dei Governi Prodi/Amato/D’Alema (1996-2001) vi erano stati alcuni tentativi di dare seguito a quanto elaborato dalla Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale presieduta dalla sociologa Chiara Saraceno, che aveva valutato gli esiti delle sperimentazioni sul “Redditto Minimo di Inserimento” in alcuni Comuni italiani. Possiamo poi tracciare una linea di continuità tra l’introduzione delle “Social Card” ed il più recente “Sostegno all’Inclusione Attiva”. A detta degli stessi proponenti, gli esiti di queste iniziative sono stati parziali, sia in termini quantitativi (esigue le risorse stanziate) sia in termini qualitativi (difficile trovare un buon equilibrio tra trasferimenti monetari e misure di accompagnamento e integrazione sociale personalizzate).

I tanti “passi falsi” collezionati hanno in qualche modo portato la politica ad accantonare il tema. Le cose sono cambiate quando le parole “reddito di cittadinanza” sono diventate uno dei vessilli del Movimento 5 Stelle.

Il consolidamento politico dei 5 Stelle ha fatto il paio con l’emergere di una riflessione globale sul futuro del lavoro: in un mondo in cui il progresso tecnologico e l’automazione industriale rischiano di rendere obsoleta, nel giro di qualche decennio, una porzione rilevante della forza lavoro globale, forse ha davvero senso ripensare il legame tra reddito e lavoro. I 5 stelle è vero fanno un po’ di confusione: quello che propongono è in realtà un reddito minimo garantito, consentendo a chi è sotto la soglia di povertà relativa di beneficiare di una integrazione di reddito; ma la proposta è presentata strizzando l’occhiolino a chi propone che tutti i cittadini, indipendentemente dal proprio reddito, debbano ricevere un assegno mensile che consenta loro di soddisfare i bisogni primari (Universal Basic Income = reddito di cittadinanza universale). Se però a mettere sul tavolo ipotesi del genere sono anche Governi nord europei, Stati come l’India ed il Canada ed esponenti del capitalismo tecnologico rampante californiano, forse il tema è più serio e complesso di quel che emerge dal dibattito italiano.

Così si spiega il picco di attenzione di questi mesi. Fioccano articoli di approfondimento (ottimi lo speciale di Valigia Blu curato da Angelo Romano e Andrea Zitelli e quello di Andrea Daniele Signorelli per il Tascabile di Treccani), policy paper, editoriali in cui si chiede di fare chiarezza sulle proposte in campo e sulla loro reale fattibilità (Dario Di Vico e Luca Ricolfi, ne hanno scritto recentemente: stando alle loro analisi la proposta dei 5 Stelle costerebbe tra i 16 e i 22 miliardi di euro all’anno)  e ricerche universitarie (Stefano Toso, università di Bologna, calcola che in Italia, pagare un reddito universale da 400 euro costerebbe 300 miliardi di euro; lo stesso Signorelli stima in 450 miliardi di euro il costo collegato ad un assegno mensile da 800 euro per tutti i cittadini maggiorenni, cifre molto vicine alla metà di quanto lo stato italiano spende complessivamente ogni anno).

Un vero approfondimento è reso più difficile dalle campagne elettorali in corso, in cui la discussione tende fisiologicamente a polarizzarsi e semplificarsi. Vediamo quindi Macron e Hamon distinguersi sul revenu universel, Matteo Renzi contrapporre al reddito di cittadinanza il lavoro di cittadinanza, con proposte specifiche ancora da articolare. Persino Silvio Berlusconi tenta di riprendersi la scena e recuperare il terreno, dichiarandosi a favore di una misura universale di sostegno al reddito (per curiosità, una sintesi delle proposte politiche in campo, con stima dei costi, la trovate qui, a cui di AGI; un approfondimento invece sulle posizioni interne al PD si trova invece in questo articolo di Roberto Galante; in questo articolo del Corriere sono invece riassunte le iniziative messe in campo da Comuni e Regioni).

Povertà. Le proposte della politica (Fonte: AGI)

Si stanno creando le condizioni perfette per mandare a monte qualsiasi proposta seria ed articolata, finendo con banalizzare un tema complesso, che tiene insieme visioni mondo, domande filosofiche (Stiamo parlando di un nuovo “diritto”, generato dalle evoluzioni del capitalismo? Percorrere questa ipotesi significa rinunciare alla centralità del lavoro nel nostro ordinamento sociale ed economico? E’ un tema di giustizia sociale o di come interpretiamo il futuro?) e tecnicalità di policy (che tipo di servizi e costi sarebbero “sostituiti”dall’introduzione di queste misure; per le misure non “universali”, quanto dovrebbe “pesare” l’assegno “giusto” per non disincentivare al lavoro? Per quanto tempo andrebbe erogato il sostegno, per avere effetti non cosmetici?).

Dobbiamo avere il coraggio di dirci la verità: non c’è sufficiente chiarezza rispetto alle proposte in campo, non sono chiare né esplicite le variabili da prendere in considerazione. In queste condizioni, qualsiasi intervento su scala nazionale risulterebbe oggi molto probabilmente uno spreco di risorse pubbliche, determinando effetti di spiazzamento.

Consapevoli della complessità di questo dibattito, proponiamo una moratoria e una sperimentazione. Dichiariamo di non avere abbastanza informazioni e dati per progettare una misura nazionale che abbia senso (le misure di contrasto alla povertà siano portate avanti con le loro giuste motivazioni, senza chiamarle in modo improprio né accontentandosi di contentini elettorali – proprio in questa settimana è stato approvato il ddl delega sulla povertà, un piccolo passo in avanti nella giusta direzione) e proviamo ad investire in una sperimentazione locale che consenta di fare dei passi in avanti sulla base di evidenze scientifiche.

Si strutturi, come in Finlandia, un test su scala locale in grado di evidenziare al meglio i parametri da tenere sotto controllo e i meccanismi di mettere in campo (l’esperimento è condotto dalla INPS finlandese, tutti gli aggiornamenti si trovano qui; in particolare è utile la lettura del report della commissione di esperti che ha studiato le alternative da testare..  poi per limiti di budget si è scelto un esperimento semplificato) . Milano può essere un’ottima area di sperimentazione. Si tratta di una delle poche aree del Paese caratterizzata dalle qualità politico/istituzionali adatte a “reggere” uno stress test del genere. Prendiamo atto di questa maggiore capacità istituzionale e mettiamola a frutto dell’intero Paese.

Quanto costerebbe un esperimento del genere? Più o meno 100 milioni di euro in 3 anni, se si volesse dare vita ad un test di scala analoga a quello finlandese, territorialmente concentrato. Tale stima è effettuata ipotizzando un universo di 3000 persone che percepiscono, per massimo 3 anni, diverse tipologie di sostegno al reddito (assegni mensili da 400, 800 o 1200 euro al mese). Al costo dei trasferimenti diretti viene sommato un costo di gestione stimato attorno al 10% della cifra erogata (mettendo come soglia la performance istituzionale raggiunta dalle migliori ONG internazionali) ed un budget per garantire un corretto monitoraggio e valutazione dell’intero processo. I costi di gestione e monitoraggio potrebbero anche diminuire utilizzando soluzioni innovative come il sistema SocialPay progettato da Sardex, creando al contempo circuiti virtuosi per il sistema economico locale, attraverso la creazione di una moneta complementare locale.

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Le ipotesi alla base dell’esperimento

  • Numero di individui coinvolti: 3000
  • Assegno mensile erogato (tre tipologie): 400 / 800 / 1200 euro
  • Durata del test (in mesi): 36
  • Costo stimato per i trasferimenti diretti: 86.400.000 euro
  • Costo di gestione dei trasferimenti (ipotesi 10%): 8.640.000 euro
  • Costo per progettazione, monitoraggio, valutazione: 5.000.000 euro
  • Costo totale dell’esperimento: 100.040.000 euro

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A cosa dovrebbero servire queste risorse? Per testare gli effetti di tre tipologie di misure: un assegno mensile da 400 euro (pensato come misura di contrasto alla povertà), un assegno mensile da 800 euro (pensato come assegno incondizionato da erogare a diverse tipologie di persone), un assegno mensile da 1200 euro (pensato come sostegno all’inclusione lavorativa, fortemente collegato a politiche attive per il lavoro). L’analisi si concentrerebbe sugli effetti diretti e indiretti di queste 3 forme di sostegno su 3 campioni da 1000 persone.

Stiamo parlando di rafforzare il nostro sistema di welfare o rischiamo di indebolirlo? Il reddito minimo andrebbe a sostituire alcuni servizi esistenti? Queste sono esattamente le domande a cui la sperimentazione dovrebbe contribuire a rispondere. L’assegno più basso verrebbe probabilmente considerato come una integrazione al reddito, i due assegno più significativi potrebbero invece essere considerate misure parzialmente sostitutive di altre tipologie di sostegno: assistenza sociale, indennità di disoccupazione, cassa integrazione (questi ultimi due in realtà sono istituti che non si basano esclusivamente sulla fiscalità generale, ma su contributi versati da lavoratori ed imprese, proprio per questo la loro sostituzione/integrazione andrebbe strutturata). Alcuni sostenitori del reddito di base vedono in questo strumento un mezzo per semplificare radicalmente le modalità di intervento pubblico in questo campo (prospettando interventi più efficaci ad un costo minore). Queste tesi sono in realtà tutte da verificare, insieme all’armonizzazione fiscale di queste misure (le collego ai redditi degli individui o nei nuclei famigliari?).

Fino a quando l’assegno mensile sarebbe erogato? Per un massimo di tre anni, interrompendo l’erogazione nel momento in cui si verifichino alcune condizioni (il superamento di una determinata soglia di reddito su base annuale, l’inserimento o il reinserimento all’interno del mercato del lavoro). Da valutare anche quando la “nuova condizione” potrà essere considerata “relativamente stabile”,per assicurarsi che gli effetti collegati a questo programma non siano solo impatti di breve periodo o palliativi. Dobbiamo provare ad aggredire le cause della povertà o della scarsa occupabilità, non solo tamponarne gli effetti negativi.

Avrebbe senso anche un esperimento di taglia più contenuta? Non è riduttivo testarlo solo in una città? In presenza di un vincolo legato alle risorse economiche, l’esperimento potrebbe essere concentrato in un’area della città di Milano (un sottoinsieme di quartieri, un Municipio). Il test, se condotto a livello di area metropolitana milanese, riteniamo possa avere una significatività nazionale. Volendo introdurre ulteriori variabili di controllo, si potrebbe allargare anche a città di medie dimensioni (Bergamo, Pavia) o ad aree più interne (Bassa Valtellina), sempre rimanendo in Lombardia.  Indipendentemente dalla concentrazione geografica resterebbe invariata però la necessità di prendere sul serio questa sperimentazione, coinvolgendo Presidenza del Consiglio, ISTAT, CNEL, INPS, ANPAL ed Alleanza Contro le Povertà nella valutazione degli impatti, nel monitoraggio di campioni di controllo e nell’integrazione di servizi aggiuntivi (in questo senso, potrebbero tornare utili gli indicatori territoriali sviluppati all’interno del progetto BES – benessere equo e sostenibile). Più complessa la stima dei costi per rendere strutturale la misura, in termini dinamici, e l’identificazione delle necessarie coperture.

Quali sono le visioni del mondo alla base di questo esperimento? C’è una versione di “reddito di cittadinanza” che si ritiene più adatta rispetto al contesto italiano? Ci sono delle ipotesi, che riteniamo utili testare. Rispetto agli scenari che abbiamo di fronte, riteniamo più utile una misura che punti a favorire inclusione e mobilità sociale attraverso il lavoro, all’interno di un quadro di sostenibilità economica dello Stato italiano. Una misura pensata per essere:

  • Non universale, ma attivabile da tutti coloro che si trovino, in un determinato momento, in condizione di bisogno o transizione lavorativa. Strumento di autonomia e trasformazione della società, non diritto naturale o intervento che allevia disuguaglianze senza intervenire sulle cause che le generano. Un dispositivo capace di aggredire emergenze ma che è molto più simile alle politiche per l’educazione e alle politiche attive per il lavoro piuttosto che alle politiche sociali.
  • Fortemente collegata al mondo del lavoro: in grado di consentire investimenti sulle capacità future (formazione e acquisizione di competenze come forma di prevenzione di rischi futuri –  meglio investire sulla creazione di competenze utili ad intercettare i lavori del futuro piuttosto che pagare per ammortizzatori sociali di chi viene espulso dal mercato del lavoro);
  • Strumento di controllo del proprio futuro: una specie di ammortizzatore personale della vita, capace di assicurare contro i rischi di interruzione lavorativa di carattere personale (interruzioni lavorative, difficoltà familiari, emergenze personali) e contro rischi “di sistema” (transizioni strutturali del sistema produttivo, assestamenti dovuti a globalizzazione, obsolescenza tecnologia, equilibri commerciali internazionali – se nel secolo scorso queste transizioni erano più lente ed enti locali ed organizzazioni di rappresentanza formulare risposte nuove e organizzare capacità di investimento, ora siamo di fronte a crisi sempre più veloci e su scala diversa: ad essere colpiti non sono più un distretto industriale o una regione, ma un intero settore industriale, una nazione o una porzione di continente);
  • Generatrice di speranza e crescita personale, per giovani e meno giovani: utile per investire sui propri talenti e desideri, capace di assecondare inclinazioni personali e percorsi di carriera, adatta sia per chi ha l’ambizione di dare vita ad un proprio progetto imprenditoriale sia per chi desidera contribuire allo sviluppo della propria comunità locale, mettendosi a servizio degli altri (interessante a questo proposito la proposta di Brookings, che suggerisce di investire in “programmi di lavoro pubblico con un valore sociale”, attribuendo un significato rinnovato a questi termini).

 

 

TAG: Lavoro di cittadinanza, milano, reddito di cittadinanza, reddito minimo
CAT: Innovazione, Occupazione

Un commento

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  1. silvia-bianchi 7 anni fa

    Sono d’accordo con la necessità di una seria sperimentazione preliminare, ma concentrarla nella sola città di Milano mi pare riduttivo e distorsivo: il capoluogo lombardo ha condizioni di opportunità lavorative e di erogazione di servizi pubblici completamente diversi da quelli di una piccola città del sud o di un’area rurale del centro Italia; a causa di queste significative differenze, ciò che può funzionare bene a Milano potrebbe invece fallire altrove… forse sarebbe bene diversificare le aree di sperimentazione in modo da testare le varie opzioni in “habitat” diversi. Probabilmente non esiste una soluzione “giusta” per tutta Italia, ma ogni contesto può avere una “soluzione ottimale” diversa

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