Due o tre cose su Fanpage e gli onanisti del giornalismo

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22 Febbraio 2018

Essendo il mestiere ancora una mezza cosa seria, lasciarlo ai Cerasa, ai Christian Rocca, alle Chirico, tre supernovae dell’onanismo giornalistico, sarebbe una leggerezza imperdonabile, ma neppure impiccarsi ai Sandro Ruotolo della situazione, instancabili amanuensi delle procure, pare una buonissima idea, alla disperata ricerca, come siamo, di un’onesta terra di mezzo che contempli notizia e relativa sensibilità. Ci perdonerete se ogni tanto torniamo sul concetto di notizia (giornalistica), ma insomma in questi giorni di furia mediatica si assiste a dotta convegnistica sul valore della medesima senza averne troppo chiaro il senso. Che poi, la notizia, è la cosa più bella e semplice che c’è, struggente come un tramonto sul Bosforo, e quando uno come Marco Taradash l’altro giorno sosteneva che proprio non (ci) piacciono quelli che le notizie “le spiegano”, riferendosi ai tre di cui sopra, abbiamo compreso che neppure l’onesto conduttore di “Stampa e Regime” sa bene di cosa stiamo parlando. La notizia non c’è proprio bisogno di spiegarla, si spiegano semmai i fenomeni, la notizia è croccante, bella, immediatamente percepibile anche a persone di modesto livello intellettuale come siamo noi. E come tutte le cose belle di questo tempo, è sempre più scarsa. Giusto il dibattito che muove intorno all’argomento di questi giorni: l’inchiesta dei ragazzi di Fanpage è un tramonto sul Bosforo?

Intanto, in premessa, possiamo dire che lì dentro c’è clima. C’è mondo. Che non significa che ci sia anche “la” notizia, ma questo non importa, la responsabilità primaria è raccontare ai lettori, in premessa, che cosa si starà per leggere, per vedere. E qui si vedono molte cose, non esattamente sorprendenti, ma egualmente straordinarie per la semplicità disarmante con cui, grazie ai protagonisti, vengono messe in scena. Basterebbe questo? Beh sì, in tempo di magra raccontare un clima è già un onesto e ragguardevole lavoro. Ma in questo caso, la questione sta tutta da un’altra parte perché il miglior giornalista di Fanpage non è esattamente sul libro mastro dell’azienda, ma risulta essere tal Nunzio Perrella, già camorrista pentito, assoldato dai ragazzi di Fanpage per scardinare un sistema. Andrà detto subito: Nunzio è un autentico fuoriclasse, sguazza nella merda con la leggerezza di un Neymar Jr. che semina avversari come paletti di uno slalom, non sbaglia i congiuntivi, alza e abbassa la voce come un suggeritore del Piccolo Teatro. Tutti hanno con lui un ottimo rapporto, confidenziale, immediato, anche perché molti lo conoscono già. (Il procuratore Roberti ha ricordato che cominciò a pentirsi proprio con lui nel ’92, una vita fa, e ancora circola).

Nunzio Perrella è diventato suo malgrado protagonista del dibattito. Da giorni, è accompagnato dall’espressione “agente provocatore”, figura che peraltro non esiste nel nostro codice. Molti si sono scandalizzati per l’uso disinvolto che ne fa Fanpage – ma come, un soggetto del genere per acchiappare “roba” giornalistica? – a noi non ha prodotto neanche un plisset. Ognuno utilizza il medium che preferisce, l’importante è che il gioco sia chiaro. È qui il nodo. Per attaccare la credibilità di Fanpage, molti si attaccano al medium, come se Fanpage dovesse produrre atti giudiziari e non, semplicemente, giornalistici. Le due cose sono lontane anni luce. Peraltro, con una certa precisione, il procuratore Roberti ha chiosato la questione dicendo che, sotto il profilo giudiziario, la roba di Fanpage vale sostanzialmente nulla.

Invece la questione, almeno per noi, rimane invariabilmente e squisitamente giornalistica. Degli atti giudiziari ci interessa nulla. La domanda che poniamo è la seguente: la Procura di Napoli è intervenuta in questa inchiesta giornalistica? E se sì come, soffiandoci sopra, spingendo, modificando, rallentando, proponendo, consigliando? Il direttore Piccinini, racconta un pezzo piuttosto informato del Fatto, a firma di Vincenzo Iurillo, e mai smentito, si sarebbe presentato dai pm “per collaborare”, mostrando ai giudici il materiale di cui era in possesso. Da lì, ne sarebbero nati lunghi e problematici conciliaboli per trovare una sintesi comune, tra interessi giudiziari e quelli giornalistici. Sintesi che ovviamente non è andata a buon fine. Anche, ma non solo, per la figura di quel benedetto “agente provocatore”.

Questa storiella ha una sua morale. Che ognuno nella vita deve fare solo il suo mestiere, senza ipoteche su quello degli altri. A maggior ragione nel giornalismo, che è un mestiere di assoluta solitudine. Quando il direttore Piccinini decide di varcare il portone della Procura, l’inchiesta giornalistica finisce in quel momento. Nessun giornalista è così ingenuo da rovinarsi con le sue stesse mani, mettendo il materiale a disposizione di “altri”. Meno che mai dei giudici. Se lo fai, a quel punto il giudice si sentirà autorizzato a dire senz’altro qualcosa. Glielo chiedi proprio tu, peraltro. Invece, come ogni bravo lettore, anche il pm se lo deve ritrovare in pagina una bella mattina. E se si incazza è anche meglio. Poi ti chiamerà. Ma dopo però.

 

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