Modiano: “Se l’epidemia fosse partita a Napoli avremmo voluto l’esercito sul Po”

14 Giugno 2020

“Quando si gridava, quasi disperatamente, che #Milanononsiferma, si ammetteva una indisponibilità al riconoscimento della nostra finitezza. Si confessava in fondo l’assenza, dalle nostre mentalità, della consapevolezza che a volta invece ci si deve fermare. A questa consapevolezza del resto ci avevano abituato le guerre, che ci avevano forgiato all’idea – diventata patrimonio secolare di ogni popolo – che i progetti a lungo termine sono sempre precari, sempre disponibili a brusche frenate”.

Pietro Modiano, 68 anni, figlio della grande borghesia milanese, banchiere, una radice profondamente ancorata nella storia del PCI e un’altra, più carsica ma non meno profonda, nel pensiero cristiano, guarda al mondo del post (si spera) Covid dalla sua casa di Milano. È reduce dal salvataggio di Carige, dopo anni a guidare – nominato da Giuliano Pisapia – gli Aeroporti Milanesi gestiti da Sea. Prima ancora la Tassara di Zaleski, tanti avanti e indietro con la Cina, posizioni di vertice nei principali gruppi bancari italiani.

“Siamo noi, boomer e affini, generazioni nate nel dopoguerra che quell’epoca la conoscevano solo per racconti e libri che abbiamo sempre di più creduto col passare degli anni che il progresso sarebbe stato continuo, inarrestabile, senza fratture nè instabilità. Abbiamo creduto alle rivoluzioni senza sangue, lo sviluppo senza sporcare, i profitti senza sfruttamento: insomma la crescità senza contraddizioni. Miti positivisti e scientisti, anche in politica. La forza della sinistra era l’idea di progresso che comunque ti portava là, “al posto giusto”. E ovviamente abbiamo sempre letto tutti e solo i segni favorevoli alla nostra convinzione, a questa narrazione: ovviamente prendendo degli abbagli catastrofici.
In questo quadro, non bastò a rompere la prospettiva nemmeno la minaccia nucleare. Una minaccia talmente assoluta da essere tutto sommato messa sotto controllo. Anche perchè c’era la coscienza condivisa, da tutte le parti, che eravamo in fondo in buone mani: nessuno tra quelli che potevano avrebbe mai schiacciato il bottone. Era un equilibrio retto da una paura somma, che avrebbe appunto garantito la continua crescita, il continuo progresso, tenendo lontana – lontana come sono le cose impossibili – l’idea della crisi catastrofica: la catastrofe non sarebbe mai arrivata. Si fa fatica ad ammetterlo, per molte ragioni, ma quell’epoca è stata un’epoca di grande civiltà, di prosperità e fortuna, e chi l’ìa vissuta guarderà indietro per sempre con nostalgia”.

Parliamo di crisi catastrofiche. La Crisi del 2008 ne aveva tutte le caratteristiche. O no?

“Assolutamente sì. Quella crisi di per sè colpiva alle fondamenta un modello che avevamo costruito e raccontato fino allo sfinimento, un modello fondato sulla perfezione naturale del mercato, sulla sua capacità di allocare in maniera efficiente le risorse, generando – ancora – crescita infinita. E proprio perchè il modello narrativo ed economico ci piaceva così tanto, la crisi del 2008 è stata completamente rimossa, sia nell’analisi che dall’azione. Perché le classi dirigenti che dovevano affrontare il dopo crisi non si sono fermate minimamente a riflettere, tanto era radicato il pensiero della “perfezione” del modello, anche in forza del fatto che quel modello aveva garantito finora benessere e potere alle classi dirigenti stesse”.

A proposito di rimozione, l’indice Nasdaq ha segnato i suoi masismi storici appena un paio di giorni fa.

“Eh, esatto. Un segnale che anche questa volta c’è una grande spinta a una nuova rimozione integrale. Questo ci riporta a un dibattito economico e culturale, invero abbastanza clandestino, che però c’è e cerca di rispondere a una domanda: perchè non è cambiato niente, dopo la crisi del 2008? La domanda è corretta: perché le basi ideali e scientifiche di quel modello sono state raso al suolo, dalla crisi del 2008, come il modello comunista dal Muro di Berlino. Eppure in questo caso la risposta è stata diversa, totalmente. Proprio perché le classi dirigenti, quasi tutte composte da persone della mia generazione, all’incirca, sono tutte cresciute e allevate da un orizzonte di senso unico e indiscutibile: che a questo modello di sviluppo non c’è alcuna alternativa”.

Dal 2008 siamo usciti con più finanza e meno stato, alla fine.

“È una cosa che mi fa ancora arrabbiare, se ci penso. Perchè mentre eravamo nel pieno delle riflessioni e dei primi timidi segnali di autocritica, da parte di noi banchieri, è arrivata la crisi del 2011, la crisi del debito sovrano, ed è stato facilissimo dire che il problema era il pubblico, non il privato; lo stato, e non la finanza.

E torniamo al punto, TINA: there is no alternative!

“Era una convinzione positiva, in fondo. Era ed è più che una convinzione che sia il meno peggio: è la convinzione che sia il miglior modello possibile, che il capitalismo come lo abbiamo conosciuto funzioni bene, nonostante quealche problema. Del resto, tra i vari argomenti rafforzativi si continua a citare la Cina: anche loro, che sono costitutivamente comunisti, in realtà hanno deciso di accettare di giocare a pieno titolo nel campo del mercato”.

Ecco, a proposito di Cina, un paese che tu conosci bene: anche loro hanno rimosso l’idea di catastrofe, di crisi catastrofica?

“Questa è LA grande domanda. Difficile conoscere abbastanza i cinesi per dare una risposta. Loro sono marxisti, e il loro essere marxisti si sostanzia nella certezza che la storia vada scientificamente nella direzione che essi desiderano e che essi perseguono. Per questo ritengono che il loro compito sia antitutto l’analisi scientifica della storia e della situazione concreta. A questa convinzione si accompagna – o forse ne è una delle ragioni profonde? – un’idea maturata dei millenni: che la Cina sia destinata, da sempre e per sempre, a stare al centro del mondo. C’è stata una catastrofica parentesi di duecento anni, in cui sono passati dal produrre il 20% del Pil mondiale al 4%. E sono tornati serenamente al 20%, senza nemmeno mai agitarsi: perchè sentono la propria centralità globale come assoluta, naturale, non scalfibile Il loro stare al centro, peraltro, non contempla mai l’idea di essere aggressivi. Stanno al centro senza mai andare da nessuna parte, tanto che il loro simbolo è un muro difensivo. Loro sono dunque portatori di un’idea di una storia senza catastrofe. E se la castrofe dovesse arrivare la Cina concepisce sempre che la assorbirà”.

Come valuti la loro reazione alla pandemia, che è esattamente iniziata da loro, a casa loro?

“In un modo stranissimo, se ci pensiamo bene. Noi li definiamo un paese capitalistico non liberale. Un regime autoritario combinato al mercato: e questo ci dà fastidio perché abbiamo sempre raccontato che il mercato e il capitalismo potessero vivere solo dentro a una democrazia, e che in un’economia di mercato la democrazia prima o poi trionfa… Ma insomma, diciamo che abbiamo sempre fatto prevalere la valutazione sulla loro accettazione del mercato rispetot al resto, e ormai li consideriamo a pieno titolo dei nostri, perchè hanno scelto il nostro modello, il nostro modo di vivere, e addirittura hanno sposato il turbo-capitalismo. Ma i conti non tornano, non del tutto. Il turbo capitalista, in questa assenza di alternative ai sacri principi dello sviluppo, avrebbe dovuto fare una scelta completamente diversa, e spingere verso l’immunità di gregge. Anzi, avrebbero dovuto diventare il vero gregge immune. E invece no. Hanno invece preferito rischiare di far saltare la loro economia, piuttosto che vedere salire esponenzialmente il numero dei morti”.

Vero. Però è anche vero che hanno blindato Whuan e la sua regione, ma il resto del paese è andato avanti.

“È vero in parte, perché se guardiamo tassi di inquinamento e di movimento a Pechino e Shangai durante il lockdown, ci rendiamo conto in fretta di quanto quella scelta di contenimento abbia pesato su tutta l’economia cinese, non solo su quella di una regione, peraltro grande e importante dal punto di vista economico. E hanno accettato di spostare i loro obiettivi di 15 o 20 anni: tanto abbiamo la storia davanti, e quel che ci muove non sono i diritti supremi dell’impresa e del profitto, ma la vita umana. E dovrebbe cambiare la percezione globale della questione: perché i turbocapitalisti, i Boris Johnson, i Bolsonaro, i Trump, hanno detto e fatto quel che dovevano fare in coerenza coi principi e i sistemi di cui sono espressione”.

Se avessero scelto l’immunità di gregge, secondo te, l’Europa continentale li avrebbe seguiti?

“Forse sì. O forse l’Europa avrebbe dato una prova di civiltà. Chissà”

La trasparenza però è mancata.

“Non c’è dubbio, non voglio certo esagerare nelle lodi di un paese che, tra l’altro, ha cancellato il vincolo dei due mandati, spingendo quindi un regime autoritario verso la possibile dittatura personale. Non c’è dubbio che ci siano problemi serissimi, a cominciare appunto da questa assenza di ricambio della classe dirigente, che ha finito col limitare, di molto, un dibattito interno al partito che da noi non risuonava ma era comunque molto ricco e toccava tutti nodi, anche i più sensibili”.

Ho avuto l’impressione che molte milioni di persone in Europa, per la prima volta, abbiano pensato di dover morire, come se prima della pandemia non l’avessero mai pensato.

Speriamo. Sarebbe un cambiamento importante. Di sicuro un cambiamento rispetto alle ultime grandi epidemie io lo vedo, netto. Nel 1969, quando arrivò l’influenza di Honk Hong che fece molte migliaia di morti in Italia, la reazione fu semplicemente fatalista. Si muore, si diceva. Basti dire che io che avevo 16 anni non ne conservo alcu ricordo.
Di certo questa malattia, questa epidemia, che ha nel mirino i vecchi, e una classe dirigente anziana, che guida società anziane, come quelle europee, si è forse sentita chiamata più direttamente in causa. Qualcuno ha anche azzardato un’ipotesi su cui riflettere, per quanto dolorosa: se avesse colpito i giovani forse la reazione sarebbe stata meno drastica. Non lo sappiamo, speriamo di non doverlo sapere mai.

Ne usciamo migliori, come si auspicava all’inizio?

Però io sono convinto che qualcosa di buono stia succedendo: anzitutto perchè abbiamo reagito in modo diverso dal modello di sviluppo che pensa solo all’economia, e sacrifica le vite. Poi perchè abbiamo imparato – si spera – il valore della sanità e della sanità pubblica, come perno assoluto della civilizzazione. Se confermati, sarebbero grandissimi cambiamenti, positivi per noi.

Questo virus ha colpito al cuore il modello di sviluppo, e anche il mito narrativo, della nostra città, Milano.

Ecco, aspetta. C’è una malizia precisa di questo virus. Per qualche ragione, ha colpito i forti. La Cina, il Nord Italia, New York, Milano. I ricchi del mondo. Naturalmente, poi, all’interno delle società più ricche si è accanito particolarmente, come sempre, sui più poveri e fragili. Ma a livello globale la fotografia resta questa. E io credo che, se si fosse comportata socialmente come Ebola, che ha devastato l’Africa, o come il colera a Napoli, io non credo che i civili milanesi si sarebbero comportati come i napoletani si sono comportati con noi.

In che senso?

Qui siamo tanto offesi perché qualcuno dice che non vuole i lombardi in Campania o fuori regione. Ma io credo che se invece che a Nembro il disastro fosse scoppiato a Casoria o a San Giovanni a Teduccio voglio vedere… credo avremmo messo muri, barriere, chiesto l’esercito a presidiare le porte della città, e avremmo invitato i napoletani a lavarsi. Altro che qualche boutade alla De Luca… Invece di offenderci dovremmo riflettere su come la pandemia ha anche mostrato la fragilità delle nostre eccellenze, tanto decantate. Intendiamoci, non è che sia tutto da buttare in Lombardia, anzi, ma questa vicenda, tremenda, deve farci riflettere su un certo senso di superioriorità che ci portiamo dietro. E anche sulla sufficienza con cui il mondo ricco guarda a queste cose, quando capitano ai poveri. Tutto questo ci incoraggia a pensare a quel che abbiamo rimosso dopo la crisi del 2008, riassestando le priorità, ridiscutendo il sistema meritocratico che genera ingiustizie e un modello di sviluppo che ormai non possiamo più negare sia non sostenibile.

Non sara facile, però. Perché siamo sull’orlo di un burrone, di un crollo epocale delle nostre economie. E quando la situazione è questa, la cosa più facile non è ridiscutere tutto, ma anzi far ripartire al più presto quello che c’era prima. L’incentivo rottamazione, il bonus edilizio, l’aperitivo tutte le sere: tutto quel che facevo prima, insomma.

Infatti, le autostrade sono piene di camion. E c’è anche la voglia di vivere, che non è una cosa brutta, anzi. Non è facile cambiare struttura e modo di vivere. Però, se le cose cambieranno e cambieranno davvero sarà perchè abbiamo attraversato una pandemia.

Milano. Torniamo a casa, parliamo di noi. Siamo la capitale italiana della finanza, ci sentivamo una piccola Londra, tanto da fondere le due borse. Siamo capitale della moda e del design. Non abbiamo mai smesso di puntare sull’edilizia. Tra una cosa e l’altra abbiamo fatto un grande evento, e rafforzato enormemente il nostro appeal di place to be. E adesso? Adesso cambia tutto? Come si fa a reggere questo cambiamento?

Per anni ho presieduto la Sea, e ho vissuto gli anni della crescita, ripidissima, di Milano. Eppure, anche allora, non mi sfuggiva, non poteva sfuggirmi, la dimensione comunque di “seconda città”. Vista da un aeroporto la questione era chiara. Non era un hub, non poteva diventare un hub…

Questo però non dipende da Milano. Le decisioni centrali, sul punto, le prende la politica nazionale, che decide…

Probabilmente. Il mio dovere era lavorare perchè ce ne fossero due.  (sorride). Torniamo al punto. Milano deve riconoscere la sua dimensione, e ricordarsi gli ampi margini di miglioramento anche nella scala delle seconde città di un paese. Anche perchè, al di là delle autocelebrazioni, spesso per sentirsi piccoli, da milanesi, basta andare a Dusseldorf, non serve andare a Londra o Parigi, per vedere un altro livello di vivibilità. Credo che sia una chiave su cui ragionare.

Milano ha avuto la tentazione e la dannazione per cui ha vissuto anni in cui essere la miglior città d’Italia non è stato difficile. Come finisce sta storia?

Certo, abbiamo attraversato i peggiori anni di Roma. Eppure, anche guardando gli aeroporti, anche Fiumicino era un bel modello da seguire. Era ed è sicuramente più centrale e importante dei nostri aeroporti. Come finisce? Chissà. Dovremmo capire da dove ricomincia. Il rischio è che ricominci dagli aperitivi, dalla vita di prima, senza problematizzare nulla.

Ricominci insomma dal tic di #Milanononsiferma.

Un tic che ho avuto anche io, perché mettere in dubbio ciò che crediamo di essere destinati ad essere non è facile. Ma se c’è un momento per correggerlo, per guarire, è proprio questo.

 

 

 

 

 

 

 

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Un commento

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  1. massimo-crispi 4 anni fa

    Grazie per questa intervista lucida e per aver messo in evidenza un atteggiamento sano che forse potrebbe realmente mostrare una strada. Difficile, lo so, anche perché alla fine la pandemia è ancora troppo breve per poter veramente prendere coscienza della catastrofe economica. Una guerra di cinque anni, settantacinque anni fa, avrà di certo fatto capire meglio agli italiani e ai milanesi cosa era successo. Due mesi di clausura e poi si torna all’apericena invece sembra che si sia stati solamente in vacanza. Questo, naturalmente, per chi non ci ha perso parenti e amici. Chi ha subito perdite avrà di certo riflettuto diversamente. Ma è difficile capire quanti avranno recepito l’avvertimento. Mi viene in mente “Prova d’orchestra” di Fellini, quando la boccia distruttrice manda le vibrazioni d’avvertimento e i musici non ci fanno caso più di tanto. Poi arriva a destinazione e distrugge ogni cosa. Ma ci vuole lo choc. Secondo me la pandemia non ha ancora choccato a sufficienza e quindi il ritorno alla “normalità” come se nulla fosse è la chiave di lettura più semplicistica e più facile per tener buona la gente. Finché il principio di realtà non avrà la meglio.

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