Sala e C., attenti: a Milano non voteranno solo expottimisti e fan di Prada

27 Ottobre 2015

Tra qualche giorno Expo 2015 sarà finito ma, a quanto pare, non sarà tempo di bilanci. Non c’è infatti modo di discutere l’unanimismo conformista che avvolge il grande evento che si conclude, la città che lo ha ospitato, l’aria percepibile e attentamente condensata in retoriche avvolgenti del rinascimento milanese. Chi è milanese orgoglioso, magari da sempre, ne gioisce e sa che Milano è sicuramente una città migliore, molto migliore di quella che vivevamo con l’aria smorta e il pessimismo dei progressisti chiusi in una énclave di conservatori appena qualche anno fa. Aiuta, oltre all’aria fresca delle cose che sono successe e che succederanno a Milano, il confronto impietoso con una Roma arrivata ai minimi storici della credibilità e dell’efficienza. Un confronto che per Milano sarebbe stato felice, per molti aspetti, anche tanti anni fa: ma era proprio un altro tempo, e vai a sapere perché le buche di Roma oggi vengono raccontate come così profonde, mentre improvvisamente il mondo si accorge che Milano ha una metropolitana tra le più efficienti al mondo: cosa vera, non c’è dubbio, ma fin dagli anni ‘70 e ‘80.

La Milano che si affaccia alla fine dell’anno conserva un ricordo ormai stinto del tempo faticoso attraversato appena pochi mesi fa. Mesi in cui l’Expo ha faticato a carburare, il cui cammino è stato complicato da qualche scandalo all’italiana, ma che di fatto scompare nella memoria collettiva dopo mesi di immagini di “coda fuori”. Un successo ormai conclamato, la cui propagazione forse deve qualcosa ai lunghi mesi di grande preoccupazione immediatamente precedenti e agli anni cupi che venivano ancora prima. Anni in cui il gioioso tripudio degli anni ‘80 si dissolse nel finale da macchietta dell’ultimo berlusconismo capace di travolgere, complici i demeriti, anche diversi meriti delle giunte di Gabriele Albertini e Letizia Moratti: senza i quali – ma guai a dirlo – non ci sarebbero stati l’Expo, alcune iniziative di importante e apprezzato rinnovamento del tessuto urbano, e molte delle condizioni che rendono la Milano di oggi migliore più bella, vivibile e alla moda di quella che governavano loro, allora. Ma scordiamoci il passato e pensiamo all’Expo che finisce con il vento in poppa. Un successo sul quale non si può questionare: non diciamo sui contenuti di Expo, roba da intellettuali che perdono tempo, ma nemmeno sul conto economico e sul sospetto che di questi 20 e rotti milioni solo una piccola parte abbiano pagato effettivamente il prezzo al valore di “break even”, cioè il prezzo medio che serve a raggiungere il fatturato immaginato, all’inizio, per la voce “vendita dei biglietti”. Non provate neanche a dirlo, che la canzone del gufo rosicone in salsa milanese colpirà anche voi, neanche il tempo di dire “ma”: e con i toni arroganti, vagamente spacconi, che si sentono e si leggono in chi commenta, seduto dalla parte della ragione, la Milano di oggi e di domani.

Eppure. Eppure. Con l’orecchio appoggiato a terra, un po’ conoscendo questa città e il mare sempre troppo largo che divide le narrazioni mediatiche dal vissuto e percepito dalla “Milano normale”, qualche diffidenza e qualche prudenza sono indispensabili. Pura razionalità che è consigliata, soprattutto, a chi deve decidere la rotta di un centrosinistra che presto, tempo di un inverno che sta davanti a noi, si dovrà confrontare con l’eredità pesantissima di questo “rinascimento”: e soprattuto dimostrare che il rinascimento è riconosciuto nei fatti e sul campo dei “rinati” per definizione, cioè i cittadini. Già, perché alla fine toccherà a loro decidere chi governerà Milano dal 2016 al 2021: dare i voti alla proposta di governo del futuro; dare i voti al governo del recente passato; asseverare oppure bocciare lo storytelling che vede Milano nuovo posto in cui essere ma dal punto di vista di chi non ci deve emigrare o viaggiare, ma si trova già costretto a viverci. Attenzione: qui una precisazione è obbligatoria e forse perfino utile. La distanza che passa tra il racconto di Milano estasiato di chi vive al centro – non necessariamente in centro, non conta qui una mera nozione geografica – e ha strumenti e mezzi per permettersi ciò che di bello è successo e succederà e il corpo elettorale nel suo insieme è ampia. Molto. In qualche modo, per quel che vale lo strumento, è stata fotografata da un sondaggio pubblicato ieri sul giornale del centro di Milano, il Corriere della Sera.

“Sala davanti a Del Debbio: il sondaggio sul sindaco di Milano”. La titolazione è infingarda e potrebbe distrarre il lettore dal vero contenuto. Si potrebbe infatti pensare a una vittoria facile dello zar di Expo, Giuseppe Sala. Il vero contenuto, però, fatta la tara a un sondaggio giocato in gran parte su nomi di candidati non ancora ufficializzati – l’ad di Expo Beppe Sala, il giornalista di destra Paolo Del Debbio, il candidato sconfitto alle scorse primarie da sindaco Stefano Boeri – sembra un altro. Infatti, questa meravigliosa Milano che guarda al futuro, quella di cui parliamo da mesi a guai a dire “beh”, in realtà non è così diffusamente cosciente della sua meraviglia. In tanti, rispondendo, descrivono come peggiorata la propria condizione in città, e come peggiorata la città. In moltissimi sono indecisi su chi votare. Un numero enorme, mai raggiunto a Milano a nessuna elezione, dichiara di voler votare per il movimento Cinque Stelle, che supererebbero comodamente il 20 per cento. Comodamente arriverebbe al ballottaggio – e poi chissà – un centrodestra che, dalla fondazione avvenuta per parola berlusconiana nel 1994, vive sicuramente il suo minimo storico, nella sua capitale e nel paese, e altri nomi non ha che quello di un giornalista televisivo riluttante alla rissa politica che non lo veda come gestore, oltre che al drastico cambiamento di vita e di tenore di vita. Paolo Del Debbio, appunto. Oltre il 6 per cento pensa all’Italia Unica del movimento di Corrado Passera: e nella città in cui Mario Monti, almeno nei quartieri centrali, prese un quinto dei voti, non è una barzelletta. E, al momento, la candidatura di Giuseppe Sala viene presa in considerazione con la serietà che si dedica a una personalità notissima, oggi, ma anche con tutto lo scetticismo o, quantomeno, la laicità del caso.

I sondaggi valgono quel che valgono, il quadro è frammentato e chiaramente l’assenza di certezze su candidature e schemi di gioco fa il resto. Ma il dato ha una sua verosimiglianza, soprattutto se confrontato con l’aria che si respira a livello della terra, mano a mano che si cammina allontanandosi da Piazza del Domo e da Piazza Affari, da Via Solferino, della Fondazione Prada e dal giardino della nuova Darsena, nel quale sembra che assessori e dirigenti del Pd passino la maggior parte del tempo beandosi di quanto son stati bravi a restituire un pezzo di centro città allo struscio di chi frequenta il centro. Milano non finisce lì. Milano inizia lì e corre in fuori. Nelle case popolari e nei quartieri periferici dove la lamentela è un punto di congiunzione che non distingue tra il diritto violato e la recriminazione sterile. Dove il brontolìo e la lamentela sono un’abitudine troppo solida, e la crisi economia dura da troppo tempo, per farsi commuovere dal fatto che Milano è la città in cui essere – lo dicono i giornali internazionali – o perché un grande architetto e la famiglia Prada hanno restituito, e meravigliosamente, la Fondazione di famiglia alla città.

Insomma, la strada è lunga e chi non ha voglia di accontentarsi delle immagine da copertina lo sa. Una voglia che, prima di tutti, deve avere la politica e, in particolare, il centrosinistra. Non lo diciamo tanto per predilezione personale per un orientamento ma, molto di più, per rispetto della politica in senso stretto, e alto. Il centrosinistra ha amministrato, e più che dignitosamente, a Milano in questi anni. Sarebbe un peccato che, una volta tanto che chi fa politica seriamente, senza rubare e cercando di perseguire seriamente un’idea di società e di città, non riuscisse a vedersi confermato nelle urne. In questo, va anche detto, pur con tutte le leggerezze, assenze e disinvolture del Partito democratico nazionale e locale che da queste parti tante volte abbiamo sottolineato, va riconosciuto il merito di chi, da tempo, ha deciso di esporsi e di rischiare. Il deputato del Pd Emanuele Fiano e l’assessore della giunta Pisapia Pierfrancesco Majorino, per primi, hanno accettato una sfida e, ad oggi, continuano a difendere lo strumento delle primarie da chi, da Roma e da Milano, le mette in dubbio. La sfida sarà anche più ricca se si dovesse aggiungere un pezzo da novanta come Giuseppe Sala che parrebbe prontissimo: tanto da avere già pronto il team che dovrà lavorare a una campagna in tempi strettissimi, cominciando subito dopo la fine di Expo, o quasi. C’è da sperare che le voci che vogliono già pronto un assottigliamento della corsa e del novero dei partecipanti, in caso di una sua discesa in campo, siano smentite recisamente e definitivamente dagli altri partecipanti.

Ma per loro tre, e per tutti gli altri, valgono poche e semplici regole. La prima: a Milano non votano solo i Milanottimisti, gli expottimisti, gli entusiasti convinti che Milano, magari schifata come capitale della Brianza quando governava la destra, è oggi un incrocio tra Parigi e Manhattan. Non era vera la versione di ieri, non è vera quella estatica di oggi. Ma soprattutto, in tanti non hanno coscienza della metamorfosi, perché sono lamentosi, perché si sentono addosso la sfiga della periferia, perché semplicemente da questo rinascimento non hanno guadagnato niente. Vanno ascoltati, compresi, accolti, come dicono ad esempio tutti i dati più recenti sulle povertà dei milanesi. Che sono parecchio più poveri di Prada e dei giornalisti che raccontano la città e le sue partite di potere.
Seconda, ultima e più importante regola: Milano inizia domani. Expo è andato benino, diciamo pure bene, sicuramente molto meglio di quanto si temeva. Ma è finito, e il dopo-Expo è un grande punto interrogativo. Cui dare risposta.  La Fondazione Prada, il Mudec, la Nuova Darsena, lo spazio delle Ex Ansaldo, le esperienze di coworking come il nuovo Talent Garden dentro al quale lavoriamo noi de Gli Stati Generali, o la Fondazione Feltrinelli che presto aprirà i battenti, sono altrettante occasioni di incarnare e praticare innovazione culturale e sociale. Ma ancora non basta. Nel 2016, facendo tesoro di quanto già fatto, bisogna pensare che si riparte da zero, che si rilancia di nuovo, che la città non può e non deve fermarsi, perché nel mondo di oggi fermarsi non si può. Non solo, non tanto, per turisti e viaggiatori esistenziali, artisti e creativi, gente della moda e del design, che con più piacere continueranno a venire e a tornare a Milano. Ma anche, soprattutto, per chi da quest’onda di nuove opportunità finora si è sentito o è stato escluso. È una questione di giustizia e di democrazia: non foss’altro che, per fortuna, votano anche loro.

(immagine di copertina di Thomas Libetti, per Gli Stati Generali)

 

 

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CAT: Milano

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