Che #bellaMilano capitale morale, ma sindaco e dopo-Expo si decidono a Roma

11 Novembre 2015

Milano è tornata capitale morale. Milano ha una vitalità, uh che vitalità. E che aria nuova che tira a Milano: si progettano le cose, le si realizza, le si difende. E la Darsena, e le nuove forme di sharing e di economia collaborativa, e i grandi coworking. E pensa Expo, doveva essere un flop, e invece c’è ancora gente che fa la coda per il padiglione del Giappone. E così via. Le retoriche filo-milanesi negli ultimi mesi si sono moltiplicate a dismisura, ben oltre ogni ragionevole attesa. L’onda lunga sembra non fermarsi più: iniziata con gli articoli della stampa internazionale, sapientemente cavalcata dalla politica democratica romana e milanese, infine asseverate dal presidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Cantone che, mentre Expo finiva, ha garantito che Milano è tornata capitale morale.

Sarebbe normale, naturale, automatico immaginare che questa città da copertina, elogiata ad ogni livello, sia padrona del proprio destino in ogni senso. Capace di attrarre investimenti e quindi di spenderli come meglio ritiene, anche se in ovvio raccordo con i vari livelli istituzionali nazionali. Capace di scegliere il proprio futuro politico, e il tema è particolarmente attuale dato il dopo-Pisapia, annunciato dal sindaco stesso a Marzo, entra finalmente nel vivo. Insomma, una città da copertina, da tutti elogiata, che può e deve decidere in autonomia, come spetta a chi ha dimostrato di essere grande abbastanza.

E invece, oggettivamente, così non è. Così non sembra essere e la cosa appare più chiara dopo la visita di Matteo Renzi di ieri. In modo light, ha ribadito a colpi di battute, sorrisi e non detti, la sua preferenza per Sala come candidato sindaco. Dopo venti minuti di massimi sistemi ne ha dedicati sei, finali, per spiegare cosa sarà il dopo Expo. Il rilancio dell’area, come ormai arcinoto, sarà affidato all’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova. Non è un’invasione, non è un’annessione, ha detto rivolgendosi a Roberto Maroni che aveva polemizzato. Ma di fatto chi vorrà parlare del futuro dell’area dovrà fare i conti con un progetto già delineato, e con un player centrale già deciso. Proprio quell’istituto di Genova, nato con il governo Berlusconi nel 2003, finanziato per dieci anni dal 2004 e che, pur rappresentando  un’eccellenza, da tempo a Genova si sentiva un po’ stretto. Stretto negli spazi, nelle prospettive, nella visibilità, nei bilanci. Oggi i giornali precisano che non si tratta di un trasferimento dell’IIT da Genova a Milano, ma semmai di un suo sdoppiamento: ma è lecito, quantomeno, essere dubbiosi e aspettare. In certi casi, si sa, alla politica si consiglia gradualità.

Una gradualità che, invero, è mancata proprio sul tema del dopo-Expo. Tanto parlare del grande evento e della sua legacy, della sua eredità, epperò neanche il tempo di chiuderlo e il futuro dell’area è già grossomodo deciso, grossomodo finanziato, e va in una direzione precisa. Con un player centrale che non è emerso – questo si può dire con certezza – dai lavori epicentrati a Milano per la preparazione e realizzazione di Expo. In una Milano che tanti elogi ha ricevuto ma, evidentemente, non abbastanza fiducia per meritarsi di gestire il dopo-Expo a partire dalle forze e dalle energie liberatesi da Expo. Una storia gemella, a ben pensarci, di quella tutta politica che ha portato il centrosinistra milanese nella strana, stranissima condizioni di avere alcuni candidati in campo, di sentirsi rassicurare sull’autonomia del partito locale, e poi di aspettare – ieri qualcuno quasi ci sperava – che Matteo Renzi nominasse dall’alto Sala come candidato di centrosinistra, in modo da “non pensarci più”. Di fronte a questo decisionismo – fatto noto, può non piacere, ma non è certo un tratto che Renzi abbia mai nascosto – qualche protesta nel mondo accademico, sempre sospetto di voler proteggere le sue baronie, e poco altro. La politica milanese, salvo chi continuerà a marcare il territorio e promette che non rinuncerà a candidarsi alle primarie, come fa Pierfrancesco Majorino, sembra chinare la testa e aspettare le decisioni del capo. Che sicuramente è un decisionista poco propenso ad ascoltare, e a lui vorremmo tanto chiedere di evitare di decidere sempre, per tutti e per Milano, appena dopo aver finito di elogiare sperticatamente la città. Ma ci vorrebbe anche che qualcuno, da quassù, provasse come si deve, compattamente, convintamente, a farsi sentire e a dire dei no. Abbiamo aguzzato le orecchie: per il momento il famoso monosillabo non s’è sentito.

 

 

 

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CAT: Milano, Partiti e politici

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