La musica bisestile. Giorno 164. Enzo Jannacci

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25 Novembre 2018

La scuola milanese, a partire da Dario Fo e dai Gufi, ha visto nascere e crescere un cabaret che si è fatto canzone intensa, popolare, importante, chiave sarcastica e dolorosa per capire una città che è saltata dal Medioevo nel Futuro nell’arco di un solo decennio

 

VENGO ANCH’IO NO TU NO

 

Complessato, impacciato, timido, sarcastico, stonato, estremamente emozionale. Enzo Jannacci non c’entra nulla con la scuola dei cantautori che hanno fatto grande la musica italiana. Resto convinto che, come Dario Fo e Paolo Villaggio, appartenesse alla categoria degli artisti di teatro, di coloro che, da caratteristi, hanno un’urgenza di far vedere una faccia dell’uomo comune che altrimenti rimane nascosta.

“Vengo anch’io, no tu no”, 1968

A mio parere, musicalmente non è mai stato molto dotato, ed ha registrato come canzoni proprie alcuni brani che erano un plagio sfrontato e quasi patetico (come “Linea bianca”, che è stato la sigla della Domenica Sportiva per due stagioni – e quindi ha fruttato una barca di soldi – ed altro non era se non “Kodachrome” di Simon & Garfunkel con un altro testo), oppure ha cantato canzoni altrui, come “Ho visto un re” di Dario Fo, “Messico e Nuvole” di Paolo Conte, “Una fetta di limone” di Giorgio Gaber, e chi più ne ha più ne metta. Anche la canzone che dà il titolo a questo album è altrui, è di Dario Fo e Fiorenzo Fiorentini.

Per questa canzone, Jannacci scrisse due strofe, una sul Congo di Mobutu, ed una sui minatori in Belgio, che poi vennero tagliate dalla censura e, comunque, stridono con il meraviglioso surrealismo del resto del testo. Del resto, tutte le volte che, nella sua carriera, ha tentato di scrivere canzoni “serie”, il risultato è stato banale. No, davvero. Jannacci, prima di tutto, apparteneva a quello stupendo giro di amici milanesi che, non invischiati nelle schifezze di Celentano, rappresentavano la parte bella, buffa, triste e gloriosa di una città di provincia che, nell’arco di pochi anni, era divenuta una metropoli piena di immigrati del sud che – tra l’altro – facevano cultura, ed una delle capitali industriali d’Europa.

Mina, Gaber, Tenco, Jannacci, Lino Toffolo, i fratelli Pisu, Otello Profazio e Lino Patruno (i Gufi), tutti artisti straordinari e legati più alla tradizione dei Cantacronache che al rock’n’roll ed al beat che, con Celentano ed i suoi cloni, si era imposta in Italia. Per spiegarvi vi ho aggiunto una quinta canzone, cantata da tutti questi ragazzi in coro, che è l’inno triste degli anarchici cacciati dal Ticino, “Addio Lugano bella”, che più di mille righe può darvi la dimensione di chi stiamo parlando. Jannacci è rimasto in qualche modo attaccato a quel momento, e nelle sue canzoni dialettali, allora sì, ha raggiunto vette di tristezza e poesia ineguagliabili. Il palo della banda dell’Ortica, Giovanni il telegrafista, Vincenzina e la fabbrica, l’Armando vittima del fratricidio, tutti personaggi sofferenti, travolti dall’esplosione della nuova Milano, carosello di uomini e donne “rimasti indietro”, e che per questo meritano la nostra tenerezza e la nostra commozione.

 

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CAT: Musica

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