Oggi esce il libro “Il tuo capo è un algoritmo” di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, edito da Laterza. Gli Autori offrono una prospettiva sulle sfide che le tecnologie di monitoraggio dell’attività lavorativa pongono ai diritti dei lavoratori.
Finora la riflessione pubblica sul lavoro ha oscillato fra la difesa dei diritti dei lavoratori della gig economy, alla quale gli Autori di questo pamphlet hanno dato importanti contributi scientifici, e le istanze frutto delle paturnie di una classe disagiata che pretende gli stessi privilegi della classe agiata ma senza il disagio di dover lavorare. Gli Autori vogliono portare il dibattito un po’ più in là, delineano un futuro non troppo lontano dove gli algoritmi – oltre a consigliarci il prossimo video da vedere, il prossimo libro da comprare, sulla base dei nostri comportamenti minuziosamente memorizzati dalle diverse piattaforme con cui conversiamo, lavoriamo, acquistiamo – suggeriranno alle aziende chi assumere o licenziare, chi premiare e chi punire, sulla base di informazioni sempre più sofisticate (tempi di risposta alle mail e se e come rispondi a tua madre sotto stress) e ampie (cosa cucini? cosa fai con gli amici? ne hai? cosa pensano di te?…).
Per apprezzare il fatto che gli Autori non parlano di un futuro ipotetico ma al contrario di uno terrificantemente reale, basta consultare il sito di AlmaLaurea, il consorzio che riunisce circa 90 atenei e che si pone come “ponte tra Università e mondo del lavoro”.
Dove le buone e vecchie hard skill contano sempre meno nella valutazione complessiva di un lavoratore a vantaggio delle soft skill:
Sono caratteristiche personali importanti in qualsiasi contesto lavorativo perché influenzano il modo in cui facciamo fronte di volta in volta alle richieste dell’ambiente lavorativo.
AlmaLaurea, elenca 14 soft skill, come lavorare in autonomia, team working, problem solving e soprattutto leadership.
AlmaLaurea invita ciascuno a darsi un voto per ognuna di queste voci.
Per coltivarle e soprattutto per mostrare di possederle si seguono decaloghi, to do list, si seguono corsi di programmazione neuro linguistica (PNL), si consultano mental coach che parafrasano Nietzsche – non quello di Heidegger ma quello delle magliette.
Domani, sarà un algoritmo a darci i voti: sulla base delle nostre conversazioni sui social, via mail, whatsapp etc; sulla base delle nostre abitudini con amici, amanti, compagni, parenti, colleghi, sottoposti e superiori, fornitori e clienti.
Un algoritmo ci dirà quanto siamo leader quanto siamo proattivi, quanto crediamo in quello che facciamo, quanto siamo costruttivi e collaborativi, quanto resistiamo allo stress, quanto siamo attenti ai dettagli però flessibili.
Un algoritmo darà un voto alle nostre soft skill e ciò determinerà la nostra carriera, la nostra retribuzione, se meritiamo di essere reclutati o dobbiamo essere allontanati perché disfattisti.
Paradossalmente questi sono gli aspetti positivi di un mondo del lavoro dominato dagli algoritmi: la sorveglianza di massa in nome della meritocrazia.
Infatti, il vero pericolo è loro mancanza di neutralità e trasparenza e come questa mancanza finisca per non premiare il merito ma al contrario rischia di consolidare distorsioni e discriminazioni.
La mancanza di neutralità è data dal fatto che un algoritmo incorpora in qualche modo, attraverso i parametri che adopera, i pregiudizi dei propri creatori.
Per un cinefilo morettiano, la massima espressione della soft skill di team working – “di intelligenza collettiva” – è la Juventus di Omar Sivori e la massima espressione della soft skill autonomia – “l’uomo nella sua sintesi più alta” – è James Bond.
Per voi?
Questi pregiudizi sono poi facilmente occultati man mano che gli algoritmi diventano sempre più complessi grazie all’intelligenza artificiale che ne presidia il funzionamento e l’evoluzione. Come si possono contestare esiti frutto dell’elaborazione originale di migliaia di informazioni noi candidamente affidiamo al web?
L’aver trascorso più di un minuto su questo post, associato al tono sbrigativo con cui avete risposto a vostra figlia su whatsapp e alle migliaia di like che avete dato negli ultimi mesi, di cui ovviamente non ne ricordate nessuno salvo una decina, potrebbe suggerire al sistema che oggi siete adatti per una certa posizione lavorativa per autonomia, problem solving e team working ma allo stesso fargli prevedere che nel giro di due anni andrete in burn out.
In fondo chi siete voi per dire che il sistema si sbaglia, se ne sa molto più di voi su voi stessi?
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