Il runner espiatorio

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21 Marzo 2020

In Emilia-Romagna non si può più uscire per andare a correre o fare sport. Nel resto d’Italia, invece, pare di sì, ma rimanendo nelle vicinanze di casa. Domanda: ma perché correre o fare esercizi se si sta vicino è okay e lontano invece no? E poi cos’è vicino e cos’è lontano? Buh. E pur con tutta la buona volontà, si fa pure fatica a capire perché, per esempio, a Lodi correre faccia ancora bene, come prima dell’era Coronavirus, mentre a Piacenza, cioè a una manciata di chilometri di distanza, invece no. Ma a quanto pare questi son dettagli. Alcuni amministratori, sindaci soprattutto, hanno applaudito quella che è già stata ribattezzata la nuova stretta, perché a sentir loro c’era chi non aveva rispettato le strette precedenti e allora la devono pagare tutti: praticamente è come al ristorante: si fa alla romana. E poi, come si ripete ormai a mo’ di ritornello, “cosa deve ancora capitare perché capiate che dovete stare in casa?”.

Già.

Cosa debba o per meglio dire cosa possa ancora capitare a questo disgraziato paese dove sono già morte oltre 4.000 persone, di cui più di 250 solo nella mia città, Piacenza, io non lo so e, a differenza di tanti, non fingo nemmeno di saperlo.

Ma cosa è capitato, – nonostante il dolore, anche personale, di questi giorni – quello invece me lo ricordo ancora abbastanza bene. E un paio di ideuzze sul perché qualcuno faccia, per così dire, fatica a capire – e soprattutto su cosa ci sia da capire – me le sono fatte.

E voi?

Voi ve lo ricordate lo splendido spot del ministero della Salute? Ma sì, dai, quello del ristorante asiatico, quello con Michele Mirabella, il volto Rai, tutto sorridente, con le bacchette in mano, che spiegava al colto e all’inclita che, testuale, “l’infezione da coronavirus colpisce le vie respiratorie, ma non è affatto facile il contagio”. Il ministero lo avevo caricato sul suo profilo YouTube ad inizio febbraio. Pochi giorni dopo l’Italia avrebbe scoperto il paziente 1. Bei tempi. Forse il virus, che si era fatto tutto il viaggio dalla Cina, soffriva ancora un po’ il jet-lag. Poi, però, deve aver recuperato. E pure col botto. Ed è arrivata la prima vera ondata di contagiati e poi i morti.

A quel punto, forse, era pure arrivato il momento di preoccuparsi. Ma sursum corda. Parola d’ordine: niente allarmismi. Ed è così, come dimenticarlo?, che è andato in scena lo show del ministro degli Esteri, Luigi di Maio che spiegava alla stampa, ma appunto quella estera perché lui era ed è ministro degli Esteri e infatti lui pronuncia “vairus” e mica “virus”; dicevo: Di Maio spiegava a tutti questi giornalisti stranieri che bisognava stare sereni, perché le zone rosse erano piccole piccole e riguardavano solo lo 0,1% della popolazione. «Tutti possono venire in Italia, qui si può lavorare e produrre» e perché no, pure fare turismo, diceva il ministro, anche in Lombardia e Veneto, dove okay c’erano sti benedetti focolai, ma ragazzi si mangia sempre bene.

Il calendario segnava il 27 febbraio. Un giorno che chi un domani scriverà la storia di questa epidemia dovrebbe, io credo, segnare con un bel circoletto rosso.

In quelle 24 indimenticabili ore il ministro della Salute, Roberto Speranza, sfoggiava il termine infodemìa per dire che sì, vabbè, c’è il virus, ma vuoi mettere la cattiva informazione, quella è molto peggio. Sala, il sindaco di Milano, meno raffinato intellettualmente, ma molto sales manager, invece, buttava fuori uno spot che NewYork scansati proprio, e nasceva lo slogan Milanononsiferma. Da Corso Como a Quarto Oggiaro, gli imbruttiti facevano la ola.

Metà dei comuni italiani copiava. Anzi, forse pure più di metà. Sembravamo tutti, a furia di non fermarci, dei tarantolati.

Nicola Zingaretti, il segretario del Partito Democratico, cioè del partito di Sala, a quel punto decideva di metterci il carico per convincere gli italiani che erano già corsi a svuotare gli scaffali dei supermercati a fiondarsi anche al bar per il solito apericena, che tanto si vive una volta sola e comunque, al limite, c’è la cessione del quinto dello stipendio. Come? Andando a Milano, ad un aperitivo antipanico. Tra un bicchiere e un’olivetta chiosava: «Bisogna isolare i focolai ma non bisogna distruggere la vita o diffondere il panico. Quindi bisogna dare dei segnali di ripresa e rilancio. La cosa più importante è riaccendere l’economia del Paese con misure straordinarie, ma la prima è ricreare fiducia, speranza e collaborazione per riaccendere il motore dell’economia».

Quel che ci voleva era fiducia. E non era una barzelletta.

Se la sinistra non si fermava, la destra non era da meno. Giorgia Meloni per non rimanere indietro in questa gara all’ottimismo si faceva un video, spalle al Colosseo, per invitare, per giunta in inglese, i turisti nella sua Roma: « Le immagini e le notizie che vedete potrebbero farvi pensare che il paese sia paralizzato e la gente e barricata in casa per la paura. Ma non è la verità». Non era la verità, in effetti. Ma praticamente una profezia. Il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, poi, la chiudeva definitivamente lì: «E’ poco più di un’influenza».

Poco più di un’Influenza. E certo. Anzi, lo vogliamo dire: una passeggiata proprio, da fare con tanto di cocktail con l’ombrellino in mano, tipo lungomare.

Poi Zingaretti si contagiava e Fontana finiva in quarantena con tanto di mascherina. E qualche dubbio che non sarebbe filato tutto poi così liscio cominciava, in effetti, a serpeggiare anche ai piani alti dei Palazzi. E così vai con provvedimenti su provvedimenti aggiunti a quelli precedenti. A raffica. Anzi a zigzag.

C’era il tiramolla su scuole aperte e chiuse e dove e quando. Poi i bar aperti fino alle 18. No, anche dopo, ma con servizio al tavolo. No il tavolo non c’entra, compratevi un metro, meglio se da falegname. Perché? Come perché? Bevo un Jagermeister, sono fatti miei. E poi letteralmente, dalla sera alla mattina, bar chiusi praticamente fino a data da destinarsi. Sipario.

Ma soprattutto, il capolavoro: la zona arancione che ha mandato in soffitta l’hashtag “non-si-ferma”. Era il 7 marzo, un sabato notte: gli italiani stavano ancora nel loop del “chi-si-ferma-è-perduto”, mangiando fuori come non ci fosse un domani. I più vecchi, in ristoranti e pizzerie, che così passa la paura. I più gggiovani a farsi ancora l’apericena che lo diceva pure Zingaretti. Poi usciva una bozza di un Dpcm che non si capiva, anzi sì: una cosa pareva chiara anche a chi non sapeva cos’era un Dpcm e scambia bozza per cozza: non ci si doveva più muovere, prima in Lombardia e dintorni, poi direttamente dappertutto.

Mannaggia, ma come? E la spesa? Quella la puoi fare. E il lavoro? Non scherziamo, lì se serve, ci devi andare. E lo sport? All’aria aperta così ossigeni i polmoni. Insomma, lo slogan non era più “cicciopasticcio-non-si-ferma”, ma “state-tutti-a-casa”. Però la gente si doveva muovere sostanzialmente uguale.

Chiaro, no? E cosa mai poteva andare storto? Eppure. Eppure qualcuno si è effettivamente confuso: dopo la cifra monstre di 1,2 milioni di controlli effettuati dalle forze dell’ordine, sono scattate 53mila denunce. Farebbe il 4 e rotto per cento che sembrava pure poco, visto che il provvedimento era nuovo di zecca e per decifrarlo ci voleva il giudice di Forum. Ma evidentemente sto 4 e rotto per cento dovevano essere tutti runner che forse correvano sputacchiando ai passanti e lo facevano soprattutto in alcuni comuni, quelli emiliano-romagnoli. Altrimenti la stretta si spiega poco.

Come si spiega poco il fatto che stranamente, invece, il virus non si sia fatto confondere proprio per niente né da certe giravolte, né da certi zigzag, e che non si sia lasciato sedurre da nessuno slogan.

Lui ha proceduto spedito: è così che dal paziente uno siamo al quarantasettemilaeventuno. I morti sono diventati più di 4000, addirittura di più di quelli cinesi, pur essendo i cinesi oltre un miliardo. E mentre proprio la Cina, otto settimane dopo l’introduzione di regole severissime di quarantena, sempre le stesse, festeggia ora la fine dell’epidemia; qui da noi in Italia, quattro settimane dopo la scoperta del paziente 1, e un numero imprecisato di provvedimenti che forse forse si potrebbero definire un tantino contraddittori, finiamo di montare i primi ospedali da campo. E intanto cerchiamo ancora un’anima pia che ci venda almeno un po’ di mascherine, se non altro per il personale sanitario, personale sanitario che un giorno gira per le corsie e il giorno dopo finisce allettato pure lui.

E cosa debba ancora succedere per capire, non so. Ma so che bisogna cercare di stare in casa e pure in campana. E far muovere, anzi, correre il cervello. Perché una volta c’erano gli untori e ora i corridori. E mentre il parlamento è praticamente chiuso e i tribunali, pure, l’esercito è chiamato a pattugliare le strade. A scriverlo, mi viene un brivido. Poi mi chiedo se ci saranno le mascherine per queste pattuglie o se alla fine, poveri cristi, finiranno allettati pure loro insieme a tutti quanti gli altri. In fondo,  la storia qui da noi si ripete sempre uguale. Come diceva Flaiano: la situazione politica in Italia è grave. Ma non è seria.

TAG: coronavirus
CAT: Parchi, Sanità

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