Abbattere il PD? No, va restaurato con testa e amore

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6 Ottobre 2022

Da molti anni non vedo più la televisione. Non per snobismo, non necessariamente ascolto Bach o leggo Proust, ma preferisco scegliere i mezzi di intrattenimento e informazione on demand, senza dover dipendere dai palinsesti e suddividere la mia attenzione con prodotti targhettizzati per la media degli utenti che oltre a me, professionista di mezza età con buona istruzione. include in maggioranza le casalinghe, i pensionati, i più giovani.

Potenza del digitale, che dal primato dell’offerta (prendi quello che c’è), ha permesso di passare al primato, potenziale, della domanda: ci sono infinite nicchie e ti scegli quella in cui ti trovi meglio, per poi saltare a un’altra. Vale per ogni mercato, compreso quello atipico del consenso politico.

Le ultime elezioni politiche hanno confermato questa tendenza dell’elettorato a un certo bovarismo nel consenso. L’enorme travaso di voti a Destra che ha ridisegnato la geografia elettorale lo dimostra: milioni di elettori non hanno cambiato atteggiamento o parole d’ordine, non c’è stata una marea di Destra da parte di persone che prima votavano altrove, hanno cambiato app perché hanno percepito un’offerta più convincente (e una parte non trascurabile non ha comprato nulla).

A farne le spese, come dimostra l’ennesimo e inconcludente psicodramma di questi giorni, è stato il partito più ancorato a un modello di consenso generalista, il PD. Nato dalla fusione tra un partito di sinistra già piuttosto variegato al proprio interno e un partito erede della costola di sinistra del partito pigliatutto per eccellenza, la DC, il Partito Democratico ha per anni e per insipienza altrui occupato completamente lo spettro di centro-sinistra. Con evidente inclinazione, non solo “vocazione” maggioritaria: nel ciclo politico in cui i valori di coesione sociale fossero stati in cima ai valori dell’elettorato, questo confine si sarebbe spostato un po’ oltre la metà, determinando una vittoria. Nei cicli negativi, il campo sinistro sarebbe stato comunque presidiato.

Come la televisione generalista, il partito generalista è per forza una misticanza di posizioni. Dovendo presidiare il terreno e ragionando in un’ottica maggioritaria, non si può essere troppo divisivi o schizzinosi. Il Labour di Blair aveva tra i deputato Jeremy Corbyn, ossia quanto di più lontano a parte quelli del campo avverso. Si faceva il congresso, si vinceva e la leadership dava le linee, democrazia.

Moltissima acqua è passata sotto i ponti dall’epoca del cartesianesimo maggioritario: la larghezza dei campi è diventata innanzitutto fattore di debolezza, il glutine ideale/ideologico non tiene più, gli elettori si scocciano e cambiano canale, anzi spengono la TV e guardano Netflix, Amazon Prime, TimVision, a seconda di quello che li aggrada. Ci sarebbe molto da scrivere sulla sopraggiunta debolezza della tenuta dei sistemi politici in epoca digitale e spero che qualcuno lo farà presto.

Ora l’attenzione è calamitata dalle conseguenze di questi cambiamenti sul corpo vivo del più antico, generalista e catodico dei partiti italiani, il Partito Democratico. Ha perso molti meno voti di altri il PD, ma le sconfitte si pesano anche, non solo si contano. I Democratici hanno vinto pochissimi collegi uninominali e soprattutto hanno visto sbertucciato il loro ubi consistam, il sostegno mimetico a un modello di governo liberaldemocratico, europeista e soprattutto “compatibilista”, di sviluppo educato, che parla le lingue e ha fatto l’Erasmus, ma anche ovviamente di attenzione ai diritti sociali e civili.

L’universo mondo insomma, che nel paradigma maggioritario funzionava perché era una somma di tendenze, di “mi piacerebbe, se dipendesse da me la farei, ma c’è l’Europa, adesso vediamo, comunque alternative non ne avete, anche se non vi siamo simpatici siamo i soli amici che avete” è diventato un costante “il PD è ancora troppo questo”, “il PD non è abbastanza quest’altro”.

Soprattutto, per la prima volta nel campo di centrosinistra sono spuntati dei competitor, veri e assai agguerriti, non i morticini che Letta si è portato dietro come poco dignitoso simulacro di coalizione. Gente che al PD vuole fare del male, di brutto, che gli vuole rubare consenso e spazi e che lo invita a casa propria con le intenzioni della strega di Hansel e Gretel. Per soprammercato, i competitor non sono sommabili in una coalizione, si detestano e tirano il povero PD dalla propria parte, promettendo sette anni di sventure qualora gli preferisca gli altri. Sono tutte mele avvelenate, che partono da una pericolosissima “dipendenza dal campo”, ossia dipendenza da quello che vogliono e fanno gli altri, inclusa la possibilità che, per dire, Renzi e Calenda abbandonino il contegno tenuto sin qui e si divorino a vicenda.

Tocca al PD fare l’ometto e cavarsela da solo, capendo cosa vuole fare da grande, senza dipendere dai consigli interessati e dalle menate apocalittiche di avversari, ex segretari e capibastone, giovani e anziani lobbisti di potenze antioccidentali.

Io non credo al bartalismo a tutti i costi, per cui “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, a spararla grossa per poi non fare nulla. Non credo che il PD debba sciogliersi, e concordo con Fioroni (l’ho detto) quando fa notare che lo sforzo storico fatto con la nascita del PD non può sprecarsi nella subalternità a Conte o a Azione Viva. Con tutto il rispetto per gli avversari con i cognomi del leader sul logo del partito (fase orale della politica) che sognano OPA sentendosi Tesla che si pappa la General Motors, c’è un differenziale di storia, spessore culturale, organizzazione democratica, presenza territoriale per cui, come si dice a Milano, “stà sü de doss”.

Come per lo stadio di San Siro, non credo che il PD si debba abbattere, ma ristrutturare profondamente, anzi restaurare con amore e artigianalità. La direzione di questo restauro, in un partito che non dipende dai livelli di litio del leader ma ha una base democratica, deve essere il risultato di un processo, ossia quanto di più lontano dal giochino che piace alla comunicazione, coi capitani di ventura che si contendono il corpaccione malato, ognuno pronto a fare i fatti propri e poi andarsene alla seconda sconfitta (la prima è gratis).

Provo invece a ragionare su alcune questioni “igieniche” e di processo, che credo debbano essere oggetto di attenzione.

La classe dirigente del partito deve essere profondamente rinnovata, anche al di là dei demeriti dei singoli, per dare un segnale che si vogliono fare le cose sul serio. Semplicemente, ci sono persone che sono state troppo tempo in prima fila, hanno commentato troppi exit poll in televisione, che si vincesse o, più spesso si perdesse, e soprattutto che non si sa più perché sono dove sono. Devono essere gentilmente pensionate.

Il PD, con la Lega, FI e FDI, ma ancora più di questi, ha una presenza territoriale capillare ed ha espresso sindaci e amministratori locali capaci, onesti, dedicati, che parlano con le loro comunità tutti i giorni. Questo è un patrimonio che i partiti che si stanno anzitempo contendendo le spoglie democratiche non hanno e non avranno mai. Ogni mena su riformismo e laburismo evapora finalmente di fronte all’esperienza concreta e quotidiana di queste persone, che dovrebbero avere le chiavi del PD e rappresentarne la principale proposta di valore, la faccia da votare. Certamente più spendibile della tecnostruttura a trazione PD che ha, più che bene invero, retto la barca dello Stato ed ha rappresentato la piattaforma per tornare ogni volta al Governo da grigi salvatori della Patria. Quella narrazione ha salvato il Paese più volte ma non è politicamente spendibile, paradossi della democrazia, ma tant’è.

Il Paese è in difficoltà e sociologicamente si è spezzata la piramide dei bisogni teorizzata nel 1954 dallo psicologo Abraham Maslow, secondo cui la soddisfazione dei bisogni più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Oggi i bisogni di sicurezza (seconda fascia dal basso) sono tornati ad essere cogenti per troppe persone e si è interrotta la loro connessione con i bisogni di stima e auto-realizzazione (penultima e ultima fascia in alto). Detto altrimenti: se sono preoccupato perché non riuscirò a pagare le bollette e tu mi fai una storia perché al seggio c’è la divisione tra maschi e femmine io ti mando a stendere, punto.

Il compito storico, forse troppo pretendere per il corpo fragile del PD di oggi, sarebbe proprio di ricucire questa piramide, sapendo che il continuum dello sviluppo anni ’90 si è esaurito. Bisogna lavorare per riconnettere i punti, per far dialogare una grafica lesbica milanese e un contadino eterosessuale lucano. Oggi magari votano anche la stessa cosa, ma ognuno è attivista per sé, in una cacofonia in cui tutti parlano e nessuno si ascolta e allora si lascia la casa per rifugiarsi nelle nicchie che dicono quello che vogliamo sentirci dire, o si abbandona il campo, tanto nessuno ci da retta.

Modestissima proposta vintage: si mandino i dirigenti a farsi le ossa non solo in territori geografici diversi, ma anche su comunità differenti. Si misuri il paladino dei diritti LBGTQ+ con le dinamiche delle PMI e l’operaista con l’ambiente, ché il primato della politica ha sempre previsto la capacità del politico di professione di travalicare la propria tribù, competenza che sembra essersi persa in quest’era di code lunghe.

Più che prendere un cappello per fare felici gli avversari, serve dedicarsi a questo lavoro di ascolto e ricucitura del Paese, per cui l’essere un po’ generalisti non è un impaccio, ma una condizione necessaria. Il disegno che potrebbe uscire da questo lavoro sarà il ritratto di un partito che non passa dal 10 al 40% per poi tornare al 9, ma che più lentamente lavora per fare ritrovare la pace a un corpo sociale esausto, che si prepara a ulteriori problemi.

Ecco, il partito della pace, sociale e presto si spera non solo quella, sarebbe un bell’oggetto sociale per la Ditta restaurata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TAG: Crisi PD
CAT: Partiti e politici

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