Auguri a Elly S., reboot di Matteo R.

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28 Febbraio 2023

L’OPA woke sulle spoglie mortali del PD è riuscita e Elena Ethel “Elly” Schlein è diventata un po’ a sorpresa Segretaria, sovvertendo con il voto popolare quello degli iscritti al partito.

Non condivido i quattro quinti delle sue argomentazioni, non apprezzo la sua retorica, non sottoscriverei gran parte della sua agenda, non mi identifico nel gruppo di potere che la sostiene (che è bello grosso, eterogeneo e imbullonato, inclusi alcuni grotteschi dirigenti di partito e parlamentari da diverse legislature che si spellano le mani per il grande messaggio di cambiamento, agli altri), non considero il suo percorso politico né così esemplare, né tantomeno eroico, non considero il percorso che l’ha portata alla segreteria contro il parere degli iscritti e delle iscritte e con il voto esplicito di militanti del M5S un fulgido esempio di altro che della crisi strutturale del partito che ho votato nelle sue forme da quando mi sono socializzato alla politica. Nella sostanza, non mi piace.

Sono nel rivendicarlo patetica minoranza, dacché nella mia bolla sono tutt* garrul*, in particolare certe sciurette milanesi engagé che non vedevano l’ora. Soprattutto, se la scommessa della Nostra è vera, per un boomer patriarcale come il sottoscritto che lascia la comunità del PD arriveranno legioni di giovani che pensano molto meglio, con un guadagno netto. Io continuerò a fare politica come la faccio ormai da un decennio, occupandomi molto modestamente di temi (le micro e piccole imprese, la Provincia, le competenze, l’innovazione) che considero assai più importanti delle mene dei vincitori, e va bene così. Quando dovrò scegliere tra gli shampoo alle elezioni, vedrò sul momento quello che mi convince di più.

Visto che sono stato formato nella stessa città da cui la neo Segretaria ha iniziato la sua ir(re)sistibile ascesa a guardare a agli eventi di lunga durata per capire il mondo, mi interessa ragionare su come siamo arrivati al golpetto woke su quello che, accacciato che è, è comunque il secondo partito italiano, ragionando su tre cose. Lo faccio ringraziando un persona con cui abbiamo commentato i fatti e che, molto intelligente e raffinata, mi ha spostato lo sguardo dal dito alla luna della catastrofe.

La prima, di cui per obiettivo ritardo mio fatico sempre a capacitarmi, è quanto il PD e i suoi dirigente siano venuti a nausea a tantissimi potenziali elettori e militanti. Un partito che ha governato tantissimo tempo, facendo anche cose buone, e che oggi si ritrova non solo a dover ricominciare ancora una volta da capo, ma a non aver più un ubi consistam (è nato nel maggioritario come partito democratico all’americana, un’altra epoca), e soprattutto ad essere considerato una cosa morta, brutta, materia prima seconda.

I partiti sono organizzazioni complesse di persone, e non è possibile contestualizzare la prima questione senza evidenziarne una seconda: la classe dirigente democratica è stata negli ultimi anni complessivamente una successione di pippe pusillanimi. Pippe perché hanno sbagliato lo sbagliabile, hanno saputo fare incazzare l’elettorato di sinistra e pure quello riformista, hanno reagito con esasperante, analogica lentezza a tutti i cambiamenti repentini dell’era politica digitale, non hanno capitalizzato i successi ma si sono tatuati in fronte gli sbagli. Pusillanimi perché tutti, anche i meno scarsi, anche quelli che non venivano dalla cultura dei polli di batteria del PCI, dove venivi estruso alla dirigenza come il dentifricio dal tubetto, hanno ritenuto più utile fare i pesci in barile che esporsi lottare per sostituirsi subito alle pippe al comando. E dunque un processo lunghissimo per sostituire una delusione che aveva sostituito un’altra pippa (Zingaretti non è stato una delusione, perché non ha mai illuso), lo studio spasmodico del momento giusto per poi finire bruciati (vero Bonaccini?), l’applicazione zelante di logiche di corrente anche dove evidentemente violentavano la logica (cosa diavolo c’entra la Sinistra laburista con Schlein?).

Una dote elettorale in restringimento, ma ancora abbastanza solida nell’epoca delle alterne fortune rapidissime, presidiata da custodi non solo imbelli, ma così lenti da aver lasciato spalancata la porta di primarie aperte anche quando lo spirito del tempo non era da lungi più quello, non poteva che fare gola a qualche rider politico. È già successo, nemmeno troppo tempo fa, e in quel caso si chiamava Matteo Renzi. Benché oggi sia per il PD una sorta di babau, in grado di orientare anche molta della campagna per le primarie come sua ennesima uccisione, le analogie strutturali non sono poche.

Matteo Renzi diventa da outsider Segretario del PD un anno più vecchio di Schlein (38 a 37 anni), con eguale afflato di aria nuova in una stanza chiusa, con identica attenzione mediatica e speculare affacciarsi di nuove facce, mentre bonzi e bonzetti facevano un passettino indietro sempre con la consapevolezza che da loro bisognava passare. Per chi non ha delle cose pubbliche la memoria del pesce rosso, dunque, molta dell’odierna rivoluzione è un rimacinato in salsa progo di cose già viste (non credo vedremo il 40%, ma posso sbagliarmi). Se questa rivoluzione è come quella, non andrà bene, prima che per l’impazzimento del Capo, per il lavorio lento ma inesorabile degli anticorpi di un sistema che fa entrare facilmente il batterio radicale (in un senso o nell’altro), ma altrettanto rapidamente lo isola e lo espelle. Vedremo.

Intanto buon lavoro Matteo, ops! scusa, buon lavoro Elly.

 

 

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CAT: Partiti e politici

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