Oggi il governo ha approvato il disegno di legge relativo alla riforma costituzionale che introdurrebbe la misura del premierato, novità politica assoluta, di cui non esistono altri esempi nelle rodate democrazie occidentali. I principi della riforma proposta dalla Meloni sono relativamente semplici, comprensibili da tutti, come se fosse un gioco da tavola: “Chi vince il premierato, prende tutto”.
Il premier che viene eletto (non sappiamo ancora come, perché dovrà essere varata una nuova legge elettorale) ottiene anche il 55% dei seggi in Parlamento, in entrambe le camere, che a questo punto potrebbero anche essere direttamente abolite, visto che non potranno più far altro che votare a favore delle leggi proposte dal consiglio dei ministri nominato dal premier (e approvato, qualcuno ha detto, “come se fosse un notaio”, dal Presidente della Repubblica).
Il testo della riforma non specifica neanche a quale percentuale dovrebbero arrivare le liste o i candidati “collegati” al premier, visto che l’espressione utilizzata è proprio questa: “collegati”, con il rischio che un premier che vincesse contro gli altri candidati, ma fosse supportato da una lista di partiti “collegati” che arrivasse solo al 30% dei voti, si vedrebbe assegnato automaticamente il 55% dei seggi nelle due camere (con un “premio” del 25%).
Un simile tentativo era stato fatto anche da Renzi, abbinando la riforma della Costituzione a una nuova legge elettorale, l’Italicum, che prevedeva un premio del 55% per le liste che avessero conseguito il 40% dei voti. Segnalo che l’Italicum non era abbinato al premierato, e quindi il premio di maggioranza andava alla coalizione dei partiti che avrebbe perfomato meglio alle elezioni. Il tentativo di abolire il bicameralismo perfetto era invece l’oggetto (un po’ confuso, per la verità) della riforma costituzionale di Renzi, bocciata nella consultazione referendaria.
Adesso, invece, il premio di maggioranza va direttamente alla coalizione collegata al premier, ma siccome il voto per il premier e per il partiti sono ancora disgiunti, potrebbe addirittura verificarsi il caso che il premier vinca senza che la sua coalizione raggiunga neanche quel famoso 40% fissato da Renzi. Potrebbe addirittura verificarsi il caso in cui il premier conquisti il 55% dei seggi parlamentari quando la sua coalizione non ha raggiunto neanche la maggioranza relativa dei voti popolari.
Tutto ciò, ammettiamolo, è il contrario della democrazia, dove le leggi proposte dal Consiglio dei Ministri si votano in un Parlamento eletto secondo principi definiti da leggi elettorali, votate in Parlamento, ma a loro volta impugnabili per un ultimo esame dalla Corte costituzionale italiana, che ne verifica l’aderenza o meno ai principi stabiliti dalla costituzione. Le leggi elettorali hanno l’obiettivo di garantire un’equa rappresentanza del volere dei cittadini, quando sono chiamati a eleggere i loro rappresentanti.
La riforma costituzionale voluta da Renzi fu bocciata nel 2016 dagli elettori chiamati (obbligatoriamente) a esprimere la loro volontà sulle leggi di riforma costituzionale che non raggiungono i due terzi dei voti in parlamento. L’Italicum, che prevedeva il premio di maggioranza del 55% alla coalizione che avesse raggiunto almeno il 40% dei voti, venne parzialmente rigettato dalla Corte costituzionale nel 2017, che, in particolare, dichiarò l’illegittimità costituzionale parziale della legge per quanto riguardava la questione del premio di maggioranza.
Si direbbe allora che il tentativo del governo Meloni di inserire il premio di maggioranza nella costituzione potrebbe servire proprio ad aggirare l’ostacolo della Corte costituzionale, che si troverebbe di fronte a una costituzione non più appellabile come baluardo in difesa della vita democratica nel nostro paese.
L’iter della legge di riforma costituzionale voluta dalla Meloni potrebbe infatti seguire queste fasi:
Accidenti, che paura…
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