Ricordarsi della Res Publica, mentre si sale al Quirinale

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14 Dicembre 2021

“Est igitur res publica res populi”. La cosa pubblica è dunque cosa del popolo, diceva Marco Tullio Cicerone. Ma, nella frenesia di accaparrarsi la Presidenza della Repubblica Italiana, il popolo ed i suoi bisogni, indistintamente importanti, per non ascriverli nella poco edificante categoria dei privilegi, sembra scivolare in fondo alla classifica delle priorità. Calcare nel modo più plateale possibile il palcoscenico del Quirinale, appare una esigenza insopprimibile per la classe politica in forza attualmente, che equivale a stringere tra le mani il bandolo delle manovre politiche, amministrative, giudiziarie e, soprattutto, di immagine. In nome della tanto bistrattata Costituzione si siglano patti e annunciano terre promesse dalla connotazione utopistica. Il tutto per portare a compimento la cosiddetta fuga per la vittoria. Però, come ebbe a dire il grandissimo Piero Calamandrei, nel suo “Discorso sulla Costituzione” tenuto nel lontano 1955 dinanzi ad una schiera di studenti che cercavano disperatamente di risorgere a vita nuova e libera dopo tanto lacerante dolore indotto dalla guerra:” La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. La costituzione è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione!”.

E allora, sommando l’incommensurabile eredità etico-morale tramandataci dai fasti dell’Antica Roma, sulle cui rovine ci gloriamo di essere risorti, con il vero patriottismo, nobile e solidale fino allo spasimo, iniettatoci dai nostri Padri Costituenti che issarono le loro piaghe fisiche e spirituali post dittatura, ciò che dovrebbe rimanere saldo, fulgidamente rappresentato negli occhi e nei gesti dei nostri politici, è semplicemente il senso di appartenenza ad un grande Paese, purtroppo impaludato tra scandali e miserie e che stenta ancora a manifestare civiltà per taluni aspetti inconcepibili, e fermezza nel combattere germi infestanti della correttezza e trasparenza che sorreggono l’amministrazione della cosa pubblica. Già la res-publica, in virtù della quale, si è arrivati a svendere la propria ideologia, la propria dignità, per ritinteggiare una facciata color bianco immacolato, un tono che si addice a tutte le stagioni, a tutti i nomi che passano, si avvicendano, si scannano, si demoliscono, fanno finta di andar lontano, scomparire nell’oblio delle delusioni mediatiche e poi miracolosamente, per una forza motrice legata a doppio, triplo filo, con la poltrona, ritornano. Più agguerriti e smacchiati che mai. Eppure, è sufficiente incrociare i loro sguardi per scorgere una condizione vitrea nelle pupille, qualcosa che, come una patina antiriflesso, nasconde buchi e misfatti ancora più torbidi di quelli conosciuti in precedenza. La paura del cambiamento, la ritrosia e l’egoismo nel farsi da parte, la sete di un potere che, tutto può divenire, meno che placabile, non permettono di ricredersi, di ridare fiducia a chi, con quella fiducia, a fasi alterne, con un fardello pesantissimo di nomi sulle spalle, ha preferito sistemare i “cavolacci” suoi prima e su tutto, visto che c’era. Il pensiero unico dal quale siamo bombardati costantemente, in ogni circostanza in cui è previsto un dibattito. L’idea di doverci lasciare permeare da ciò che è conveniente fare, la lungimiranza delle alleanze che la politica mangia per pane, ed un istante dopo averlo ingoiato, è pronta a sputarlo con l’accusa che il lievito era andato a male, forse addirittura, all’interno potrebbero rinvenirsi tracce di veleno. Avanti un altro fornaio, un lievito più invitante e con un’offerta difficile da rifiutare. L’eterno gioco perverso dei ruoli, tra Destra e Sinistra, con Presidenti della Repubblica giunti al Colle facendosi largo tra mille polemiche, al centro di tradimenti, ripensamenti, baci e abbracci, corredati da preghiere di ricandidature che durassero ad oltranza. La Destra che urla alla Sinistra di monopolizzare la scelta del Capo dello Stato. La Sinistra che, dal canto suo, non lesina di tradire anche sé stessa oramai. E noi, il famoso popolo a cui apparterrebbe la Res Publica, a guardare mentre, in una deriva sociale, economica e culturale, non sappiamo più dove andare a sbattere la testa. Dalla nostra parte però, abbiamo ancora la giustezza del ruolo, quello di amministrati e non di amministratori, e proprio per questo, siamo chiamati ad una vigilanza attenta ed indomita su quanto propinatoci dalla classe politica, senza ovviamente strumentalizzare i compiti a cui dobbiamo assolvere, senza adagiarci in un vittimismo e luoghi comuni privi di speranza, senza sentirci autorizzati ad emulare le condotte poco ortodosse dei nostri governanti, che, puntualmente, si scoprono in differita e quasi mai in tempo reale. Dicevamo che la Destra si sente nel momento giusto e forse anche fortunato, per poter tornare sulla cresta dell’onda. Mentre Giorgia Meloni muove sulla scacchiera, come a voler sferrare la mossa del cavallo, per spodestare tutte le altre pedine, forte di un consenso cresciuto assai per non essersi “appattata” a mangiucchiare briciole di una torta bruciacchiata ai margini già da troppo tempo. La leader di Fratelli d’Italia dello spirito patriottico ha fatto un mantra ed i suoi fedelissimi sostenitori sono capaci di ripeterlo a menadito. Benché il Segretario della Lega, Matteo Salvini, quasi istericamente, cerchi di aggiudicarsi l’intera scena di Destra, aizzando e raffreddando entusiasmi qua e là, aprendo tavoli di confronto con chiunque, nulla può per rimuovere dalla memoria degli italiani, diverse e significative scivolate in cui è caduto insieme al suo entourage. Sul senso della parola “Patria” sembra volersi basare la scelta del prossimo Presidente della Repubblica. Intanto Sergio Mattarella, depenna in rosso sul calendario i giorni che lo separano dalla fine del suo travagliato (per tutto quello che l’intera nazione ha vissuto, Covid in primis) settennato, al palazzo del Quirinale. Tra scatoloni preparati per l’imminente trasloco del Capo dello Stato uscente, si arieggiano le stanze per accogliere il nuovo, che porterà appresso un bagaglio speciale: il suo nome.

Sul senso di Patria, si reggono i proclama dei politici. Una Patria troppe volte utilizzata come scudo, poco conosciuta fino in fondo, umiliata e quasi mai risarcita per i danni perpetrati. Indebolita, ma sempre bellissima, bisognosa di essere ristrutturata nei suoi apparati umani prima che statali, cassaforte inespugnabile di uno splendore eterno, donatole da chi l’ha voluta. In nome della Patria è necessario reinventarsi e reinventare un presente, per approdare nel futuro, facendo tesoro degli insegnamenti del passato, con l’intento di guarire e non solo di anestetizzare, insabbiare, i mali che la ottenebrano e vorrebbero distruggerla. La Patria non può credere di poter prescindere dall’essere parte di un unicum, quale dovrebbe diventare l’Europa, con assertività, determinazione, avvedutezza, ed equilibrio. Ed ecco, allora, che gli interrogativi che attengono alla prossima elezione del Presidente della Repubblica, toccano inevitabilmente gli strascichi che nomi popolari ma riesumati forzatamente da una morte civile e politica, sotto alcuni aspetti ineccepibile, si trascinano, stanchi ed angoscianti.

La punta dell’iceberg contro cui il Titanic politicante rischierebbe di infrangersi in malo modo, per una motivata serie di ragioni, si chiama Silvio Berlusconi. Siamo d’accordo che questa volta la Destra abbia i numeri per alzare la voce riguardo all’elezione del Quirinale, ma avanzare concretamente l’ipotesi dell’ex Premier, significherebbe offrire agli italiani un attestato di superficialità ed un gesto poco credibile. Non vi sono, infatti, sebbene siano intervenute recenti riabilitazioni civili e politiche per il Senatore, al vertice di Forza Italia, i presupposti di autorevolezza ed irreprensibilità con cui ci si deve approcciare obbligatamente ad accettare un mandato come quello della Presidenza della Repubblica. I trascorsi ed i discorsi(pronunciati come un disco incantato) screditanti nei confronti della Magistratura, ma in generale tutte le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto e sono tutt’ora in corso, non potrebbero sposarsi con il sedere a capo del Consiglio Superiore della Magistratura stesso. E questo, sia  Giorgia Meloni che Matteo Salvini lo considerano molto bene, pur sbandierando un tatticismo troppo evidente e poco persuasivo nel continuare a fare con insistenza il nome di Berlusconi. Puntando perfino su una fetta di consensi, si vocifera (mica tanto), appartenenti ai renziani, che sfacciatamente saltellano dove il terreno mostra qualche spaccatura (meglio se dichiarata “insanabile”, perché sale l’indice di gradimento nei sondaggi), auto provocandosene di pericolose ed insensate a volte. Ma allora? Il nome dell’ex patròn del Milan serve da diversivo, da elemento di disturbo per distogliere l’attenzione o creare qualche preoccupazione alla candidatura di Mario Draghi? L’attuale Presidente del Consiglio godrebbe di un indiscusso consenso per salire al Colle, se si decidesse, però, di sacrificarne l’efficacia operativa alla guida di un Esecutivo che, faticosamente, tenta di venir fuori dalla paralisi economica e sociale in cui ci troviamo, seppur a piccoli passi e tra errori e mosse a sorpresa. Certo è che da Arcore, Berlusconi, non riesce a nascondere la sua sete di conquista di un ruolo che, per prestigio e vantaggi, gli fa ancora molta gola, pur conscio dei suoi insuperabili limiti anagrafici e pratici. Tuttavia il nome alternativo a quello di Silvio, devierebbe su Marcello Pera, sicuramente avvolto da maggior sobrietà.

Come al solito, nella fitta nebbia creata ad hoc intorno al mistero della nomina del Capo dello Stato, che entrerà nel vivo tra non molti giorni, si opterà per glissare su un’altra grande opportunità di cambiamento culturale, che da tanto tempo si augurano tutti anche in ottica internazionale. Un Presidente della Repubblica donna. I nomi possibili gravitano intorno a personaggi femminili che hanno dato lustro al nostro Paese per il loro impegno professionale, scientifico e civile. Da Emma Bonino, snobbata in passato, al Ministro della Giustizia, ex capo della Corte Costituzionale, Marta Cartabia; all’attuale Presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati; la scienziata, Fabiola Giannotti; la diplomatica Elisabetta Belloni, già a capo della Farnesina. E ancora, illustri e navigate politiche, dal piglio combattivo come l’ex ministro della Sanità Rosy Bindi, e la già Senatrice, Anna Finocchiaro. Quello che inquieta, come molte cose lasciate sospese in Italia, è la sistematicità con la quale si riempiano spazi di dialogo per perorare nobili cause, con toni quasi furenti, emotivamente partecipati, celandosi dietro un labile femminismo di circostanza, che nelle ultime ore precedenti alle elezioni, viene famelicamente divorato per lasciare posto alla logica del “Chissenefotte” delle donne e del cambiamento radicale… nell’interesse esclusivo della Nazione… finché dura sta cuccagna…viva la pà, pà, pà…Patria, ovviamente.

 

 

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CAT: Partiti e politici, Quirinale

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