Governo

Poletti ha ragione, meglio fare in fretta

27 Novembre 2015

A volte capita che una persona da cui non ti aspetti nulla dica qualcosa di sensato. Ieri è toccato a Giuliano Poletti, ministro del lavoro e delle politiche sociali che,  ad un evento sull’orientamento degli studenti a Verona, ha affermato «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21. Così un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare. In Italia abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. Perché i nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più si butta via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, non serve a niente».

Quindi uno che non si è laureato, e probabilmente non si è mai cercato un lavoro vero visto che sembra aver passato la sua vita tra incarichi politici e semi-politici, ha detto una di quelle cose scomode che ti aspetti da un manager di una multinazionale o da un docente di qualche università che ambisce ad essere simile alle istituzioni anglosassoni.

E chiariamo subito, non ha detto che i voti non contano nulla. E non ha detto che laurearsi tardi è da sfigati e basta (come invece fece Michel Martone). E non ha detto che l’università non serve a niente.

Ha detto semplicemente che attardarsi in università per inseguire voti più alti alla fine può portare più danni che benefici perché il tempo passato non si recupera e potrebbe essere speso per fare esperienza nel mondo del lavoro dove purtroppo i laureati italiani arrivano molto più tardi che i ragazzi di altri paesi.

Non si rivolgeva chiaramente a chi si deve mantenere durante gli studi e quindi lavora, sebbene forse un pensiero possa andare a chi toglie allo studio tempo ed energie per quei lavoretti accessori che non servono per vivere e non fanno esperienza.

E non si rivolgeva nemmeno a chi durante l’università ha fatto altre esperienze importanti ed edificanti, dal volontariato in una ONG ai mondiali di vela ai concerti in una filarmonica. Queste sono esperienze che si mettono in un CV e che un addetto alle risorse umane dovrebbe notare quando storce il naso davanti alla durata del periodo passato in università.

Quindi impegno  e dedizione ma non focalizziamoci sui singoli voti agli esami, perché nella vita alla fine quel 23 non farà una grandissima differenza.

Diciamo però che non è tutta colpa degli studenti, loro un po’ si adeguano al sistema e non vengono particolarmente spronati a fare presto. L’università italiana permette e non penalizza il fuori corso e il legislatore che ha cercato di uniformare il sistema a quello britannico non è riuscito a farlo capire a troppi docenti, che ancora vedono la loro materia come mattone fondamentale di una formazione di elite e quindi richiedono una mole di lavoro spropositata.

L’università britannica è l’unica che conosco bene oltre a quella italiana e mi ha sempre colpito la linearità dei percorsi di tutti gli studenti, più o meno bravi. Ti iscrivi, segui i corsi, dai tutti gli esami a giugno, estate  a disposizione e dopo tre anni sei pronto per fare altro. Lavoro o un corso post laurea. E tutto questo inizia a 21/22 anni e fa una bella differenza.

L’università di massa a cui forse dovremmo tendere non deve essere un boot camp che forma intellettuali ma un periodo di specializzazione e di studio più autonomo, più leggera ed indolore (non più facile) di quella che conosciamo. Per i più bravi sarà un segno distintivo, per gli altri però non deve essere una zavorra ma un obiettivo da raggiungere e magari anche archiviare in fretta per dedicarsi ad altro.

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