Il punto di vista di un precario: Alessandro Cannavale

:
21 Agosto 2018

In questo momento storico si avverte forte la necessità di una rinnovata interlocuzione con i bisogni più o meno inespressi di ampie aree della popolazione, ovviamente quelle che, più di altre, patiti duramente gli anni della crisi, si lasciano alle spalle recessione e politiche di austerity. Per comprendere le dinamiche sociali e politiche del nostro Paese, le conseguenze di una politica poco attenta alle esigenze delle classi sociali più fragili sopratutto al sud, ho intervistato Alessandro Cannavale ingegnere per formazione, ricercatore per lavoro, meridionalista per passione. Alessandro è nato a Bari nel 1977, si occupa nanotecnologie per l’efficienza energetica in edilizia e ha una passione contagiosa per le storie del vecchio, amato Sud, il nostro Sud, sono foggiana. Ha come ispirazione per la sua forte responsabilità civica  Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per denunciare le ingiustizie subite, ancor oggi, dalle regioni meridionali. Con il saggista Andrea Leccese ha scritto, A me piace il Sud (Armando Editore 2017).

 

 

Alessandro, aiutami a comprendere quello che sta succedendo in Italia: la perdita dei consensi del centrosinistra è circoscritta ad una leadership fragile e poca attenta o alla gestione e sviluppo della proposta politica?

Il palese logoramento della proposta politica del centrosinistra di governo, legato a doppio filo a un fallimento nell’interpretazione delle dinamiche sociali ed economiche in corso nel paese, ha mostrato la rapida erosione del consenso verso i principali leader di quell’area politica. Il drastico calo di tale consenso va rintracciato soprattutto nell’approccio leaderistico-decisionista adottato dal centrosinistra negli anni recenti. Ridurre un’area politica vasta e consolidata, ricca di intellettuali, esperti e tecnici di spessore a un one-man-show è stato il principale errore della fase che pare essersi appena conclusa. Sia in termini di definizione della leadership, sia in termini di individuazione delle priorità dell’azione di governo, la coalizione del centrosinistra, almeno in apparenza, non ha fatto altro che inseguire il centrodestra su un teatro di azione politica non corrispondente alla propria storia. Ad esempio, dando continuità ad alcune scelte economiche di stampo neoliberista (ad es., riduzione degli investimenti pubblici in quasi tutti i settori). Mentre si consumava il logoramento della formula politica desueta adottata dal centrosinistra di governo, ispirata agli anni del deprecato berlusconismo, il centrodestra si riorganizzava su posizioni più marcatamente populiste, a buon diritto ritenute più adatte a intercettare consenso in una popolazione che si barcamena in un periodo di crisi. Non si è trattato di una scelta originale: su scala globale, infatti, era in fieri l’onda lunga populista con Le Pen, Trump e altri leader peraltro fortemente dialoganti con il consolidato polo geopolitico russo. Si colgono i lineamenti – benché discussi e ripetutamente rinnegati – di un blocco geopolitico sovranazionale. Anche questa volta, il centrosinistra si presenta in ritardo al duello politico, lasciando all’avversario la scelta del campo e dell’arma. Configurando un altro svantaggio, in partenza. E un ulteriore, drammatico errore, sarebbe inseguire l’avversario con una scelta di stampo demagogico-populista e autonomista.

E il Sud?

Gli anni appena trascorsi hanno posto in chiara evidenza l’aumento della disoccupazione – soprattutto giovanile – al Sud e nel resto del paese in misura inferiore; drammatico l’aumento delle famiglie più o meno gradualmente scivolate nella condizione di povertà assoluta; quest’ultimo dato risulta confermato dalla certificata riduzione dei consumi nel paese e in particolare al Sud. L’aumento dei divari tra le macroaree del paese è dimostrato da molteplici figure di merito, sociali economiche e occupazionali. Il ceto medio è risultato impoverito e ciò ha favorito il suo allettamento da parte di proposte politiche dalle formule semplici come spot, benché smaccatamente populiste (flat tax, reddito di cittadinanza). La carenza di disponibilità di risorse da parte degli enti locali, diretta conseguenza dei vincoli del patto di stabilità, ha comportato in questi anni l’arretramento delle misure di stato sociale, con una progressiva contrazione della sfera dei diritti percepiti dai cittadini. Il drammatico fenomeno della migrazione sanitaria, che coinvolge soprattutto le regioni del Sud (con numeri molto importanti, ad esempio, in Calabria) contribuisce alla significativa percezione dell’inefficienza e della disparità dei trattamenti sanitari tra le varie aree del paese. In questo senso, l’attuazione del federalismo all’italiana, successivo alla riforma del Titolo Quinto della Costituzione, pone una serie di interrogativi di legittimità costituzionale, viste le conseguenze (Art.3). L’attribuzione di ampie autonomie alle regioni a statuto ordinario si è accompagnata in molti casi ad una drammatica amplificazione dei divari. Ai cittadini di ampie aree del territorio italiano vengono oggi somministrati servizi e prestazioni inferiori alle aspettative (Rapporto Svimez 2018, anticipazioni). Il ritardo quasi ventennale nella definizione dei livelli essenziali di prestazione (Lep, art. 117 secondo comma, lettera m) e il sotto-finanziamento delle regioni – spesso incapaci o in affanno nella gestione dell’autonomia – viene percepito come una penitenza, pur con effetti disastrosi sulle vite dei cittadini. Quando il sottofinanziamento e i vincoli finiscono per intaccare la fruizione dei diritti sociali di base, come quelli alla salute e all’istruzione, sarebbe il caso di avviare una seria e pacata riflessione, al fine di studiare, controllare e arginare siffatte emergenze, dai gravi risvolti sociali. D’altro canto, l’evidente smantellamento del sistema universitario nazionale  – e principalmente meridionale – dimostra chiaramente quanto le politiche effettuate abbiano apertamente privilegiato alcune aree del paese per sguarnirne altre, con un processo assolutamente discutibile sin nelle premesse e nei criteri adottati. Su questo tema si può approfondire leggendo i rapporti Adi – Associazione dottori e dottorandi di ricerca italiani e il recente pamphlet La laurea negata, Ed. Laterza, di Gianfranco Viesti.

Quindi in Italia sta accadendo, paradossalmente, che proprio le forze politiche che hanno direttamente concorso, attraverso diversi anni di partecipazione alla compagine di governo del paese, alla contrazione dei finanziamenti erogati in favore delle regioni meridionali, oggi fanno fruttare tali disastri con un approccio utilmente populistico, attribuendo ogni responsabilità al centrosinistra?

Esatto, un approccio populistico che è  riuscito  ad accumulare consenso proprio tra i ceti sociali che maggiormente hanno pagato l’impoverimento conseguente alle proprie scelte politiche (tagli lineari, tagli ai finanziamenti del sud, riforma Gelmini, iperprecarizzazione della ricerca). La storia ha mostrato in molte occasioni la grande abilità delle forze reazionarie nel creare “narrazioni” atte a far sì che, per lo più inconsapevolmente, molti individui o interi gruppi sociali prestassero le proprie braccia (o semplicemente il voto) al proprio avversario.

Le conseguenze dell’attuale scenario politico sono evidenti ma, nello stesso tempo,  suggeriscono le mancanze di un ‘azione politica e un progetto su quella futura?

L’attuale scenario politico dimostra, peraltro, che un approccio elettorale di tipo populistico consente di conquistare solo temporaneamente una maggioranza di governo – dal carattere instabile -, senza consentire necessariamente di mantenerla a lungo o di dimostrare chiara e coerente efficacia dell’azione di governo. Ciò si deve principalmente all’assenza di un progetto a lungo termine dell’azione politica, dotato di intelligibilità. Il governo Conte, data l’aperta inconciliabilità di molte tesi dei sottoscrittori del contratto, si basa su pochi punti di condivisione. Al contrario, un progetto politico credibile dovrebbe basarsi sulla condivisione dei principi di base, per non correre il rischio di far vacillare – o persino crollare – un esecutivo nel corso di un confronto su eventi contingenti, ovviamente non prevedibili nella stesura di un documento programmatico.

Come riaprire l’interlocuzione con i gruppi sociali più in sofferenza, in seno al paese?

Anzitutto, si rende necessario legare la progettualità di governo alla cementazione degli interessi dei gruppi sociali maggiormente colpiti dagli anni scorsi: quelli della crisi, quelli dell’austerity e quelli del predominio del neoliberismo, dagli anni Novanta in poi, di matrice leghista-berlusconiana. Il mercato non ha capacità di autoregolazione e lo Stato deve tutelare dalle varie forme di speculazione il soddisfacimento dei servizi di base, in termini di qualità e di quantità dell’erogazione. D’altro canto, intere categorie di lavoratori, interi settori della popolazione sono oggi privi di rappresentanza politica e subiscono una marginalizzazione scandalosamente taciuta. Il sociologo Emanuele Ferragina, stimando l’entità numerica di questi gruppi sociali, ha individuato una vera e propria maggioranza invisibile, costituita da circa 25 milioni di persone in Italia, comprendenti disoccupati, neet, pensionati minimi, migranti e precari. Una maggioranza tuttavia incapace di riconoscersi come gruppo coeso, come spesso è accaduto nella storia. (confrontare La maggioranza invisibile, ed. Bur di Emenuele Ferragina). In modo analogo, a proposito dei contadini nel primo dopoguerra, il sindacalista Giuseppe di Vittorio osservava che: “mancava una grande organizzazione nazionale che sapesse porre il problema della conquista della terra al di fuori al di sopra delle questioni di principio e di religione, tendere a un obiettivo comune che potesse dire a condurre alla vittoria tutti i contadini italiani. […] l’assenza d’un’alleanza reale tra contadini operai la causa essenziale della sconfitta degli uni e degli altri”. Eppure i contadini del primo dopoguerra con le proprie lotte riuscirono a conseguire il primo risultato della contrattazione collettiva oggi non fruita da ampie categorie di lavoratori, schiacciate dalla forte asimmetria delle tipologie contrattuali disponibile. È il caso di tanti profili precari.

Adesso veniamo al tema che impegna maggiormente la tua partecipazione civica : l’Università

L’esempio delle università, molto noto a chi scrive, rivela in modo paradigmatico quanto si sia spinto avanti l’uso spregiudicato dei contratti a tempo per ricercatori da parte degli atenei. Lo rivela la molteplicità di figure contrattuali (ricercatori a tempo determinato, assegnisti, postdoc, fellow researcher, etc) in forza di una legge contestabile ma al contempo abusata fino alla distorsione del suo stesso contenuto: la legge 240/2010, nota al grande pubblico come “Legge Gelmini”. L’esempio dei ricercatori mostra da un lato la creazione di un percorso a ostacoli che, sic stantibus rebus, conduce all’epilogo inevitabile della disoccupazione per la maggior parte diessi, alla fine del massimo numero di anni spendibili sul fronte della ricerca nelle università pubbliche. Dall’altro, dimostra come le università, a corto di risorse e prive del necessario turnover, abbiano tratto e continuino a trarre forte giovamento dalla possibilità di fruire di queste risorse umane senza garantire, nella stragrande maggioranza dei casi, chiari e coerenti percorsi di inclusione. La veemente precarizzazione del mercato del lavoro non risolve i problemi in modo strutturale ma funge da toppa per compensare le carenze di organico, dovute soprattutto ai mancati turnover. Gli assegnisti di ricerca, ad esempio, non fruiscono quasi mai di polizza sanitaria. Persino i ricercatori a tempo determinato, nella maggior parte dei casi, non possono candidarsi a rappresentare la categoria né in seno agli organi di governo degli atenei (senato accademico, consiglio di amministrazione) né in ambito sindacale. è una battaglia quest’ultima, che il sottoscritto sta conducendo in seno a Flc-Cgil, grazie alla lungimiranza e alla sensibilità del sindacalista Giuseppe Garofalo (Politecnico di Bari). Emerge, come un deprecabile vulnus, la mancata rappresentanza delle categorie di lavoratori più bisognose di tutela. L’importanza delle organizzazioni dei lavoratori è sempre stata centrale. Ricordiamo, a titolo di esempio, che la reazione agraria e industriale, nell’atto fondativo del regime fascista, come scrive di Vittorio, “si convinse dunque che, per realizzare il suo piano, per ristabilire completamente il suo predominio, per mettere in ginocchio i contadini e gli operai, occorreva anzitutto sopprimere le loro organizzazioni”. Incontrare la reticenza dei giovani precari a questo tipo di percorso di rappresentanza e rivendicazione è un quotidiano atto di dolorosa constatazione, frutto dell’accentramento di potere e del clima di paura che oggi incute l’assetto dei poteri negli atenei. Marginalizzazione e sfruttamento sono, come in tutti i casi, le due facce della stessa medaglia.

Cosa suggerisci?

Per le categorie di lavoratori  più o meno  escluse dalla sfera dei diritti sociali e del lavoro occorre definire percorsi di recupero e inclusione nella sfera dei diritti sociali, con un approccio intimamente neogramsciano. L’annullamento delle discriminazioni è parte integrante del nostro progetto costituzionale. In questo scenario, il ruolo di cerniera del sindacato potrà essere rilevante, soprattutto se questo si emanciperà dalla mera difesa delle categorie più garantite senza attuare, esso stesso, percorsi coraggiosi d’inclusione dimostrando la convenienza di una mutuo sostegno e soprattutto di un rinnovato impegno di adesione a un progetto politico organico e di ampio respiro. In altre parole, si pone la necessità stringente di adottare un approccio che faccia dell’inclusione la cifra di una rinnovata, solida azione politica. Il mondo del precariato, oggi ai margini del welfare state, persino privo di rappresentanza sindacale, il ceto medio gravemente impoverito (comprendente la piccola imprenditoria, stretta tra aggressività fiscale e caduta dei volumi di affari), gli altri gruppi sociali della maggioranza invisibile, come gli immigrati, per i quali occorre definire strategie di integrazione efficaci che non comportino ghettizzazione o banali spostamenti di frontiere come auspicato dalle destre e come abbondantemente sperimentato ai tempi della dittatura libica di Gheddafi. (Confrontare La frontiera di Alessandro Leogrande, Ed. Feltrinelli). Il dato dell’immigrazione, spesso esagerato per mere finalità di speculazione politica, come emerge dal testo di Leogrande, va poi intrecciato con quello del fenomeno caporalato, ampiamente studiato anche da Leondardo Palmisano in Mafia Caporale (Ed. Fandango).

Quali soluzioni per i bubboni delle mafie e della corruzione di ampi settori di colletti bianchi?

La situazione su questi fronti è allarmante, come testimoniano gli scritti di Nicola Gratteri o del saggista Andrea Leccese. Lo status quo del nostro paese impone una maggiore attenzione al recupero della centralità dei diritti sociali rispetto alla mera enunciazione di diritti civili, pur rilevanti. La ricerca di un’identità politica non può basarsi solo su questi ultimi, come dimostra la facilità con cui fette significative di elettorato più sensibili alla contingente povertà e all’oppressione fiscale possano essere dirottate persino dalla propria naturale collocazione elettorale. In economia, bisogna avere il coraggio di recidere il cordone ombelicale con le politiche ancora prevalenti, di ispirazione neoliberista. Lo storico dell’economia Emanuele Felice, su l’Espresso, ha recentemente scritto: “Le politiche keynesiane, proposte dal professore di Cambridge a seguito della crisi del 1929 e realizzate un po’ in tutti i paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale, sono state un ingrediente fondamentale per la golden age dell’economia (quella che da noi è chiamata «miracolo»), contribuendo alla prosperità di massa, consentendo un livello di benessere per fasce crescenti di popolazione impensabile fino ad allora nella storia umana. Salari elevati, pensioni, assicurazioni contro gli infortuni e le malattie, contro la disoccupazione, istruzione e sanità gratuite, o quasi, diritto alla casa: il welfare state”. La sinistra deve presentare una serie di iniziative di ispirazione inevitabilmente neokeynesiana per non impantanarsi, nuovamente, nella pallida imitazione delle politiche economiche delle destre. Più stato in economia, soprattutto per colmare i gap e risolvere i disastri ambientali conseguenti a gestioni spregiudicate in cui il mercato non ha saputo né voluto far convivere profitto, ambiente e salute dei cittadini.  Per farlo, occorrono coraggio, serietà e sincerità nei confronti del proprio elettorato. Questo tipo di esigenza giace attualmente inespresso nel panorama politico nazionale.

Fammi un esempio dell’applicazione della politica keynesiana

Ad esempio, investire nell’innovazione delle PMI, da un lato potenzierebbe il più grande settore dell’impresa in Italia, dall’altro catalizzerebbe il dialogo tra università, enti di ricerca e impresa, oggi assai debole e, in ultimo, condurrebbe a un incremento sostanziale della produttività del lavoro nelle PMI. Un progetto di governo per il paese deve avere al centro la Questione Mezzogiorno. Sparito dall’agenda politico-economica sin dall’alba di questa prima frazione di secolo, oltre che dalla Costituzione, esso può diventare una grande opportunità di rilancio per l’intero paese: gli studi di economisti e studiosi di area Svimez (Giannola, Padovani, Provenzano), ma anche Gianfranco Viesti e Guglielmo Forges Davanzati, hanno dimostrato come da una rinnovata attenzione nei riguardi del Sud non possa che scaturire un benefico “effetto locomotiva invertito”. Ossia, al contrario di quanto finora ritenuto, investire al Sud avrebbe significative ripercussioni non solo sull’attenuazione dei divari tra le macroaree del Paese ma anche sull’intera economia nazionale. Il recente rapporto Svimez 2018, nelle sue anticipazioni, dimostra che “la ripresa della crescita indica insomma alcuni elementi positivi nell’economia meridionale, che ne mostrano una resilienza alla crisi, che pure non è stata omogenea in tutti i comparti dell’economia del Mezzogiorno”. E ancora: “L’apparato produttivo rimasto al Sud sembra essere in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale, come dimostra anche l’andamento delle esportazioni. Tuttavia, permane il rischio che in carenza di politiche che sostengano adeguatamente l’apparato produttivo e ne favoriscano l’espansione, questo non riesca, per le sue dimensioni ormai ridotte, a garantire né l’accelerazione né il proseguimento di un ritmo di crescita peraltro insufficiente.

Per evitare un rallentamento della ripresa?

Per evitare altri drastici rallentamenti dell’economia meridionale  e, conseguentemente, nazionale ,sostiene Svimez che “il ruolo spesso evocato nel dibattito di politica economica su efficacia e rilevanza degli investimenti pubblici quale volano dello sviluppo del Paese è, nel Sud, confermato con ogni evidenza”. E’  interessante un punto, del Rapporto: la rimarcata interdipendenza tra le economie delle macroaree del paese. “Il Mezzogiorno è un primario mercato di sbocco dell’industria settentrionale; il risparmio meridionale è impiegato per finanziare investimenti meno rischiosi e più redditizi nel Centro-Nord; l’emigrazione di giovani meridionali in formazione o con elevate competenze già maturate alimenta l’accumulazione di capitale umano nelle regioni settentrionali”.Alcune delle ragioni di questa interdipendenza vengono chiaramente illustrate nell’anticipazione del Rapporto Svimez: “20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi”; l’aumento di domanda interna dal Mezzogiorno ha maggiori effetti sull’economia del Centro-Nord; la migrazione dei laureati provoca per il Mezzogiorno una perdita secca di circa 2 miliardi l’anno e la migrazione studentesca sposta nelle regioni del Centro-Nord circa 3 miliardi di euro, con pari perdita per le regioni del Sud.

Ciò dimostra altresì quanto possa esser sbagliato continuare ad accelerare la svolta regionalistica, a fronte di un comportamento così palesemente sistemico nell’economia italiana.

Cito Svimez: “Ancora oggi al cittadino del Sud, nonostante una pressione fiscale pari se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano (o sono carenti) diritti fondamentali: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia”. Infatti, nel 2015, il tasso di copertura di alcuni servizi socio-assistenziali nelle regioni italiane sarebbe stato del 9.1% nel Nord, del 5.3% nel Centro e del 3.6% nel Sud (Svimez su dati Istat). Inoltre, ai dati sulla “migrazione sanitaria”, dovuta alle centinaia di migliaia di meridionali, prevalentemente, che vanno a curarsi negli ospedali del Centro-Nord, si sta aggiungendo quello della “povertà sanitaria”, ossia dovuto alle famiglie che cadono in povertà a causa delle spese sostenute per far fronte a una malattia occorsa a un componente del nucleo. “Nelle regioni meridionali la percentuale sale significativamente raggiungendo il 3,8% in Campania, il 2,8% in Calabria, il 2,7% in Sicilia; all’estremo opposto troviamo la Lombardia con lo 0,2% e lo 0,3% della Toscana”. Risolvere la questione meridionale, un obbligo in termini di rispetto della Costituzione, è anche un vantaggio in termini economici per l’intero paese.

Dal documento Svimez si legge che il dato positivo del Mezzogiorno “oltre a segnare una non scontata inversione di tendenza, mostra i tratti di resilienza nei settori produttivi e soprattutto quanto il Sud sia “reattivo” alla leva degli investimenti pubblici: il pur modesto incremento del 2015 ha consentito ad esempio una ripresa, piccola ma significativa, del settore delle costruzioni, decisivo per l’economia meridionale”.

La resilienza del Sud, evidenziata già nel Rapporto Svimez 2017, è una grande risorsa per pensare di ripartire dall’Unità del paese intorno al cuore pulsante della Costituzione. Questa proprietà, tipicamente utilizzata nell’ambito della scienza dei materiali per descrivere materiali in grado di assorbire l’energia di un urto senza pervenire a rottura, ma anche in psicologia, evidenzia una forte reattività di fronte all’afflusso di investimenti pubblici e privati, nonostante i numerosi anni di crisi attraversati. Il fallimento delle politiche neoliberiste e i pessimi risultati conseguiti dalla riforma federalista in diverse regioni del paese soprattutto quelle meridionali e, di riflesso, su tutta l’economia nazionale, impongono concreti ripensamenti. Diverse opere recenti come La dinamica economica del Mezzogiorno ( edizioni Il Mulino) riportano risultati importanti conseguiti dal sistema Italia nel corso degli anni ‘50 e ‘60, cioè proprio quando la Cassa per il Mezzogiorno e le politiche a gestione centralistica producevano da un lato il boom economico e dall’altro l’unico periodo della storia unitaria in cui Sud e Centro-Nord crescevano di pari passo. Va ricordato che anche nel periodo di massima spesa dell’intervento straordinario quest’ultimo non supero mai l’1% del prodotto interno lordo, risultando peraltro una spesa sostitutiva e non aggiuntiva rispetto ai fondi ordinari, come sottolineato dallo stesso Pasquale Saraceno. Quel periodo non solo dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, la stretta interdipendenza economica tra le macroaree del paese ma, in più, fa riflettere sul fatto che la comparsa delle regioni a statuto ordinario a partire dagli anni ‘70 ha comportato lo sgretolamento dell’efficacia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno in termini di efficacia della spesa capacità di portare a termine le opere pubbliche avviate prospettiva regionalistica e talora particolaristica della spesa, estranea alla logica di programmazione strategica (Adriano Giannola in La dinamica economica del Mezzogiorno, ed. Il Mulino). L’autonomia federalista nelle regioni del sud in questo primo scorcio di secolo non ha sortito risultati positivi, soprattutto al Sud, come evidenziato da fenomeni quali la migrazione sanitaria, la povertà sanitaria, l’incapacità di gestione delle ferrovie regionali, (quest’ultima emerge ripetutamente dai rapporti Pendolaria di Legambiente), il fallimento dell’autonomia universitaria nelle regioni del Sud prive di idoneo tessuto economico e produttivo in grado di sostenere gli atenei sul territorio. Un approccio fortemente in controtendenza, per fermare il declino degli ultimi decenni, si rende indispensabile.

E’ indispensabile un cenno alla questione energetica. Si potrebbe pensare ad una proficua forma di partecipazione da parte dei cittadini nel lento e complesso processo di transizione energetica verso un massiccio impiego delle fonti energetiche rinnovabili?

L’uso predatorio delle incentivazioni e delle tariffe per le rinnovabili ha un vulnus intrinseco: l’impiego del territorio per offrire utili alle multinazionali interessate alla speculazione non ha offerto benefici sociali al territorio, oltre a presentare discutibili ricadute sul paesaggio. L’energia – la sua generazione sotto forma rinnovabile, il suo approvvigionamento, la distribuzione – vanno pensati nello spirito dell’ economia della condivisione, del cosiddetto commons collaborativo. Il modo e il tempo in cui fruiremo di fonti rinnovabili, con forme nuove di approvvigionamento accumulo e dispacciamento nelle nostre città e nel paese sarà il discrimine tra società evolute e arretrate. Forse l’idea di Tesla dell’energia elettrica come Bene Comune può diventare uno scenario plausibile, partendo dalle piccole realtà dei paesi. Come annunciato da Jeremy Rifkin in “La società a costo marginale quasi zero” (Ed. Mondadori), può diventare una risorsa pulita e condivisa su base comunitaria, a costo marginale tendente a zero, almeno entro piccole di generazione e fruizione. Comunità dell’energia, su scala urbana, secondo la definizione data da Livio De Santoli nell’omonimo saggio. L’energia come legante di una nuova forma di convivenza di vicinato. Energia pulita, libera e condivisa, per conseguire, in un sol colpo, risparmio energetico, risparmio economico, tutela dell’ambiente, ricostruzione di un tessuto sociale grazie alla condivisione di obiettivi comuni. Sarà necessario uno sforzo per attuare un cambio di paradigma: per fare in modo che le energie rinnovabili e diffuse abbiamo a disposizione un’organizzazione collaborativa che permetta la loro condivisione e il loro stoccaggio nelle varie comunità occorreranno investimenti su scala nazionale e locale. Anche per lo sviluppo di nuove tecnologie a basso impatto ambientale e a minimo consumo energetico. Inoltre, come prevedibile, perderà sempre più senso valutare la ricchezza delle nazioni mediante parametri desueti come il prodotto interno lordo. Tra i nuovi parametri di valutazione del benessere economico generale della società adottati dai governi figurano le priorità sociali, come i livelli di scolarizzazione, la disponibilità di servizi sanitari, la mortalità infantile, l’aspettativa di vita, in grado di tutela ambientale e sviluppo sostenibile, l’incidenza del volontariato, la quantità di tempo libero dei cittadini, la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà, l’equa distribuzione della ricchezza eccetera. Meglio farsi trovare pronti anche su questo fronte aperto, che continuare a inseguire obsoleti modelli di sviluppo e di crescita.

*

 

TAG: economia, enerigia, lavoro precario, politiche universitarie, Questione meridionale
CAT: Precari, Teoria Economica

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...