Mattia, cervello non in fuga: così nasce un brevetto italiano per l’osteopetrosi

23 Marzo 2015

Mattia Capulli ha 33 anni e, per mestiere, studia le malattie del tessuto osseo umano. Descrive se stesso come una persona piuttosto ordinaria, probabilmente perché la sua umiltà (virtù rara) lo porta a imbarazzarsi quando parla del suo percorso. Di fuori dall’ordinario, però, la sua vicenda ha molti aspetti. A partire, per esempio, dai riconoscimenti (11 premi internazionali e 7 nazionali) che gli sono stati assegnati per la sua attività di ricerca. Me ne parla quasi incidentalmente, senza dargli troppo peso, e rispondendo a una domanda diretta. L’ordinarietà, si sa, è un concetto che si presta ad ampie interpretazioni soggettive.

La sua è una storia segnata sin dall’inizio da una passione straordinaria per le scienze. “Mia madre ha conservato uno dei miei primi temi della scuola elementare in cui avevo scritto: da grande voglio fare lo scienziato. In fondo – scherza – ho sempre pensato che studiare fosse meglio che lavorare”.

Almeno nel suo caso, il filo che lega l’infanzia all’età adulta non si è mai spezzato. Tanto che, finito il liceo, Mattia ha ancora ben in mente quel desiderio. “Dopo la maturità non avevo le idee molto chiare. Ho valutato diverse facoltà, tra cui ingegneria, ma poi il mio amore per la ricerca ha prevalso su tutto. Se non avessi studiato Biotecnologie avrei voluto frequentare i corsi di Fisica applicata”.

Nel 2000, quindi, comincia la sua avventura. Il corso che ha scelto è stato appena istituito e lui sarà il primo a laurearsi, perfettamente nei tempi e con il massimo dei voti. La sessione di laurea sembra una festa privata visto che di fronte alla commissione c’è solamente lui. “Questo non lo scrivere”, mi chiede, ma non ho saputo resistere.  “A quel punto – racconta – avevo di fronte diverse possibilità. Avrei potuto lavorare in azienda come informatore scientifico, nello sviluppo di nuovi farmaci o nel controllo qualità. Oppure, cosa che ho scelto, avrei potuto intraprendere la carriera universitaria”. Dando a questo punto per scontato che con i numeri ci sappia fare, gli chiedo il motivo di questa decisione. “Nella ricerca c’è una forte componente di creatività e libertà, aspetti a cui avrei dovuto rinunciare prendendo altre strade. La parte bella di questo lavoro consiste nella possibilità di dimostrare le proprie intuizioni”.

Il primo passo, nel 2006, è un dottorato sotto la guida di una delle più autorevoli scienziate italiane nel campo della ricerca sul tessuto osseo: Anna Maria Teti. Alla ricerca, inoltre, si affianca un’intensa attività didattica in laboratorio verso i colleghi più giovani. “Insegnare è molto gratificante e arricchisce sia lo studente che il tutor. Puoi condividere le tue opinioni con quelle di molti ragazzi volenterosi e di talento. Nella ricerca, così come in tutti i campi, è molto importante creare un ambiente stimolante in cui le persone di talento attirano altre persone di talento”. E vissero felici e contenti, giusto? “Non proprio – ammette. C’è una consistente parte dalla giornata che il ricercatore deve dedicare alla burocrazia. Bisogna partecipare ai bandi per accedere ai fondi, valutare il budget dei progetti, fare i conti con fusi orari assurdi per coordinarsi con altri ricercatori. Ma non mi lamento affatto: faccio ciò che mi piace, per questo non mi pesa”.

Una piccola divagazione: coltivare una passione come quella di Mattia nel nostro Paese non è propriamente conveniente. Un dato su tutti lo fornisce Eurostat, nelle statistiche del programma “Europa 2020”. Nel 2013 (ultima rilevazione disponibile) la spesa italiana in ricerca e sviluppo rappresentava l’1,25% del Pil. Nella classifica il nostro Paese è stretto a “sandwich” dal Portogallo (1,36) e dalla Spagna (1,24), mentre è lontano dai primi della classe: Finlandia (3,32), Svezia (3,21), Danimarca e Germania (3% circa).

Eppure, assicura, “la formazione universitaria italiana non ha nulla da invidiare a quella degli altri Paesi avanzati. Ho trascorso dei periodi di lavoro all’estero e partecipo regolarmente a convegni in Europa e negli Stati Uniti. Le differenze – dice – non riguardano la preparazione, ma la retribuzione. Infatti, c’è una diversa percezione della ricerca scientifica e dell’enorme potenziale economico ad essa associato”. Problema annoso, legato a doppio mandato a quello della fuga dei talenti.

“L’Europa – commenta – investe molto nell’istruzione dei propri giovani ed è un peccato che questo investimento spesso non ritorni”. Mattia, comunque, non è un cervello in fuga e il suo desiderio è proprio di rimanere in Italia “almeno fino a quando ci saranno le condizioni per lavorare serenamente”. Il gruppo di lavoro dell’Università di L’Aquila di cui fa parte è molto attivo, sia a livello europeo che internazionale. Inoltre, può contare sul finanziamento di Telethon per la cura di una malattia genetica rara che colpisce appena un individuo ogni 20mila: l’Osteopetrosi. “È partito tutto nel 2008, grazie a un’intuizione della professoressa Teti. La linea di ricerca era molto promettente, ma la svolta è avvenuta il giorno della vigilia del Natale 2013. Ricordo che a poche ore dal cenone eravamo ancora in Università a elaborare dati. E subito dopo cena ci siamo scambiati delle e-mail di commento alle evidenze cliniche: eravamo su di giri, è stato un bellissimo Natale”. Oggi, quell’attività di ricerca ha condotto al brevetto di un farmaco che si trova in fase di sperimentazione pre-clinica. Il farmaco non nascerà per essere economicamente conveniente, ma con l’obiettivo di salvare delle vite. Non male per una persona piuttosto ordinaria.

TAG: finanziamenti alla ricerca, gruppi di ricerca, precari della ricerca, telethon, Università
CAT: Precari, università

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