La frase «Io di morti non ne faccio» la può dire un buon padre di famiglia, che fa (anche) il questore, quando torna a casa la sera, ma se la dice il questore di Roma nelle sue funzioni il discorso si ingarbuglia. C’è un vizio in Italia: non chiamare le cose con il loro nome. L’espressione corretta per quello che è accaduto in città, rispettosa della lingua italiana e dei fatti criminosi sotto gli occhi del mondo, è «Caporetto dell’ordine pubblico». Sei o settecento belve senza futuro hanno messo a ferro e fuoco il cuore della Capitale. In tempo reale, il fallimento della sicurezza di una città fondamentale come Roma è andato per i media universali. Immaginiamo il sarcasmo facile dei più, quando hanno pensato che l’Isis è “a sud di Roma”, immaginiamo l’ironia di chi ha visto altri fallimenti sportivi (Italia ’90 per esempio), pensando alla ridicola candidatura olimpica del 2024.
Questore D’Angelo lei ha il dovere di spiegarci cos’è oggi la Polizia, a quali funzioni assolve, se all’interno del corpo c’è una linea comune di comportamento, se ci sono le linee guida, ma soprattutto – in nome e per conto del suo diretto superiore Alessandro Pansa, capo della Polizia – dovrebbe finalmente chiarirci se i compiti delle forze dell’ordine comprendono anche la prevenzione, cioè la gestione del “prima”, o si riducono semplicemente alla gestione dell’esistente, mandando in piazza un certo numero di ragazzi con alla testa un vice-questore. Se l’ipotesi più corretta è questa, allora è inutile pensare troppo in grande, si dovrà immaginare una sicurezza di secondo piano che subisce più o meno passivamente perché – appunto – «io di morti non ne faccio».
E anche su questo concetto, espresso con un certo borioso compiacimento in conferenza stampa, sarà il caso di intendersi. È sin troppo facile ripararsi sotto l’ombrello protettivo del bene comune, caro questore D’Angelo. È sin troppo scontato attribuire alla vita umana un valore così alto da non essere barattato con nessun’altra opzione sul campo. Ma non è questa la stella polare che deve muovere i comportamenti delle nostre forze dell’ordine. Questa, semmai, è la precondizione da cui partire, per immaginare che nella difesa del bene comune, della sicurezza personale e nazionale, il sacrificio di una vita umana potrà essere anche messo nel conto. Altrimenti, vede questore D’Angelo, dovremmo ridiscutere troppi fatti della nostra storia, più o meno controversi, e invece siamo qui a dire che la vita di Carlo Giuliani si poteva sì salvare, ma che in quel contesto terribile, in cui peraltro molti dirigenti dei corpi dello stato si comportarono indegnamente, non fu scandaloso ciò che di definitivo accadde per mano di un ausiliario senza esperienza.
Non le ha fatto onore, questore D’Angelo, barattare la fallimentare gestione dei tifosi olandesi con la sicurezza delle persone comuni che in quelle ore affollavano Piazza di Spagna e le altre vie del centro. Noi cittadini non possiamo e non vogliamo essere gli scudi umani della Polizia, quelli che lei oppone alle critiche che le piovono meritatamente addosso. Semplicemente perché le questioni si dovevano risolvere prima, quando di questi pericoli, di questa pelosa attenzione per i cittadini, non c’era la minima avvisaglia, quando si doveva ragionare strategicamente di fino e senza uso di manganello o di lacrimogeni. Perché sapevate tutto, coscienti dei rischi e dei pericoli, e soprattutto eravate in possesso delle informazioni necessarie.
E poi, questore D’Angelo, lei deve vivere su questa terra, deve averne consapevolezza del ridicolo, deve sapere che la questione sicurezza, applicata al calcio, non può essere lasciata all’estro del momento, per cui se parliamo del campionato italiano blindare i tifosi in trasferta dal momento in cui toccano il suolo “avversario” sino al momento in cui vengono gentilmente accompagnati alla porta, e poi quando si tratta di avere a che fare con nazisti esaltati disporsi come per un thè delle cinque con relativi biscottini. Sveglia ragazzi, perché di una Polizia così allestita non sappiamo che farcene.
Naturalmente, sino a qui si è omesso il nome del ministro Alfano non tanto per un senso caritatevole nei confronti del medesimo, quanto per un raro senso di stanchezza. Siamo alla quinta o sesta occasione in cui ci sarebbe materia per chiedergli un atto di responsabilità, ma viste le sue risposte nelle occasioni precedenti, gli auguriamo buon lavoro per il futuro e che Dio ce la mandi buona.
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