L'arco di Ulisse

Benigni, la risorsa più funzionale della crisi europea

di Oscar Nicodemo 13 Giugno 2025

Che la più alta forma di umorismo abbia una valenza morale è un fatto di cui nemmeno il più ottuso dei pensatori moderni può dubitare. E Roberto Benigni, in passato, ha raggiunto questa vetta. Egli si è reso popolare in quanto creatura comica rivestita di una genuina e spontanea foggia intellettuale, fortemente caratterizzante e difficilmente riscontrabile. Un talento puro, innato, rivelatore di un animo predisposto alla naturale ricerca della bellezza, ovunque fosse, ovunque si potesse scorgere per offrirla in meraviglia sotto forma di spettacolo. Da sempre, però, l’umorismo, per sua natura, trova una configurazione naturale se speso al di fuori della logica del potere costituito. L’arte, tutta l’arte, da veicolare come mero messaggio culturale, non può essere privata della suo timbro etico e della predisposizione a contrapporsi alla realtà, soprattutto quando questa si presenta sconveniente e piegata a una logica di potere. Se essa viene espressa e consumata con un secondo fine, neanche troppo nascosto, crea un disagio di fondo sia in chi la produce e la diffonde, sia al pubblico a cui è destinata. E Benigni, da tempo, ormai, genera più di qualche imbarazzo in chi assiste alle sue performance, dove i temi pubblici e di grande interesse vengono esposti nella versione più confacente a una marcata politica di dominio, verso cui il nostro maestro dimostra una certa riverenza, stando attento a non canzonarlo come si dovrebbe, salvo solleticarlo con qualche battutina innocua, prevedibile e finanche stupidina, per cercare di salvare la faccia, che appare contraffatta e incapace di assumere un’espressione autentica, pertinente, accorta. Va da Vespa a promuovere il suo “Sogno”, ossia parte dell’incubo dei morti ammazzati e per fame di Gaza, dichiarandosi un “europeo estremista” e credendo che l’autodefinizione abbia qualcosa di fenomenale. Naturalmente, nella promozione del suo lavoro, si guarda bene dall’introdurre qualsiasi riferimento alla contingente indegnità dell’Unione Europea di fronte al conflitto russo-ucraino e il massacro dei palestinesi.

La verità è che Benigni non fa ridere da un pezzo, e quel che è peggio non fa neanche pensare, come vorrebbe che accadesse. Scorre a proprio piacimento la storia, soffermandosi sulla pagina che più si adatta alle sue intenzioni ambigue, e ne estrae il frammento che facilmente si presta alla manipolazione disinvolta, come quando, nello scenico campo di Auschwitz (resta difficile pensare che il film “La vita è bella” ne proponesse un altro) gli tornò utile sostituire un carrarmato russo con uno americano. Continua, ora, il popolare artista toscano, nello stesso atteggiamento, come quando stende noiosamente l’elenco dei più retorici luoghi comuni: Europa faro di civiltà, garante di pace, culla di democrazia, fonte di ogni salvezza. Ma tu guarda! Benigni esalta l’Europa e la sua storia, come se questa non fosse mai stata interessata da determinati processi di distruzione; come se la guerra in Yugoslavia non ci fosse mai stata e l’indecoroso bombardamento della Nato su Belgrado non fosse mai stato effettuato; come se la Brexit fosse una spiritosaggine in stile british e non la scelta britannica di alleggerirsi del fardello dell’UE; come se le diversità e le minoranze di ogni genere, riscontrabili nei paesi europei, non fossero discriminate e vessate. Forse sarebbe più realistico raccontare della grande speranza tradita dall’Europa, anziché sventolarne una che rimane del tutto fantasiosa, elaborata nell’ottica di una dimensione eurocentrica, fastidiosa e assillante, incompatibile con la molteplicità dei popoli e delle culture e, pertanto, discordante e inconciliabile con qualsiasi forma di umanesimo. L’idea che la speranza del mondo sia insita solo nella cultura europea viola semplicemente le leggi della fisica. Albert Einstein avrebbe riso a crepapelle della comicità involontaria di Benigni, mentre gli antropologi del futuro non faranno fatica a bollarlo come un divertente giocoliere acculturato.

L’eurocentrico Benigni farebbe bene a riflettere in maniera scientifica sulla storia e non in maniera allegra per darne conto in uno spettacolo e in un libro che hanno, a quanto pare, la pretesa di ergersi a faro spandi luce. Gli storici, i filosofi, i sociologi, basano le loro congetture su meccanismi metodologici che hanno assunto in anni di studi e ricerca. E tutti loro ci dicono che è pur vero che abbiamo inventato la democrazia, ma l’abbiamo utilizzata per colonizzare gli altri continenti, sottomettere e sterminare gli altri popoli in nome di chissà quale libertà e causa di uguaglianza. Anche il colonialismo lo abbiamo inventato noi europei, l’imperialismo e la schiavitù, lo sfruttamento e l’oppressione dell’uomo sull’uomo all’interno delle fabbriche e in ogni luogo di lavoro. E i genocidi, le massime efferatezze di disumanità, hanno un’origine europea. Li abbiamo inflitti in nome di princìpi che appartenevano unicamente alla nostra cultura, per civilizzare della gente che voleva restare nel suo habitat naturale e vivere delle proprie conoscenze e consuetudini. «L’Unione Europea è la più grande costruzione istituzionale, politica, sociale, economica, degli ultimi 5000 anni realizzata dall’essere umano sul pianeta terra», proclama il cantore italiano dell’Europa moderna. Una scemenza esemplare che, secondo, l’autore, dovrebbe contenere il momento supremo dell’evoluzione della civiltà umana. Pongo, infine, una domanda: in tutta onestà, si può mai arrivare a pensare che conformandosi ai provvedimenti e alla politica dell’Unione Europea, il resto dell’umanità e il mondo intero potrà diventare una comunità felicemente democratica, raggiungendo l’agognata e definitiva pace? Bah, mi pare che nel mondo vi siano nazioni che hanno trovato la loro via maestra senza il nostro aiuto. Penso alla Cina, alla tanto vituperata Russia, all’India, al Giappone, alla Corea del Sud… per non parlare delle costellazioni a sud di Orione.

 

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