Bergamo, il grido di chi cura i disabili: “Sole e a mani nude contro il virus”

22 Aprile 2020

“A un certo punto uno dei nostri ospiti, malato psichiatrico, aveva una crisi molto forte. Un altro ospite lo aveva strattonato e quel gesto lo aveva mandato nel panico, perché gli aveva ricordato quando il padre lo picchiava. Io ho fatto l’unica cosa che bisogna fare, in questi casi, che però è anche la più vietata di tutti, in questo momento: l’ho abbracciato forte”. Francesca Facchinetti, presidente della Cooperativa Consorzio La Cascina, quattro case che accolgono disabilità e fragilità psichiche in provincia di Bergamo. Proprio all’imbocco di quelle valli devastate dal Coronavirus, Francesca racconta con un’immagine chiara, precisa, cosa hanno vissuto gli operatori e le operatrici socio-sanitarie. Ascolto e appunto i racconti di cinque donne, tutte della provincia di Bergamo, tutte impegnate, a vario titolo, al lavoro delicato di chi ha dovuto mandare avanti comunità e compagnia per fragilità sociali, psicologiche e psichiche, mentre tutto attorno si moriva di Coronavirus loro sono state (e stanno) su un fronte avanzato e fragilissimo, lontano dai riflettori eppure ad altissimo rischio di vedere le loro realtà invase dal virus. “E col senso di colpa di poter essere la prima ad ammalarmi, quindi la prima a portare il virus in una comunità da cui non potevamo stare fuori, altrimenti si fermava tutto e in quei contesti è l’unica cosa che non può succedere”, racconta Donatella, che fa la coordinatrice in una comunità della Val Seriana, la valle simbolo dell’ecatombe da Coronavirus.

Le loro voci costruiscono una polifonia in cui l’assonanza è perfetta su un punto: nessuna istituzione voleva prendersi le responsabilità. Beatrice, operatrice socio-sanitaria cui il Covid ha portato via il padre, ricorda “lo scaricabarile da parte delle ATS, che imponeva i dispositivi di sicurezza senza garantirli a nessuno, dicendo che erano a nostro carico e non aiutandoci a fronteggiare una situazione ovvia: le mascherine non c’erano, erano già introvabili a febbraio. Oppure, arrivavano mail che ci raccomandavano di fare i tamponi, senza spiegarci dove, come, quando, a quali condizioni…”.

Roberta, coordinatrice di una comunità per disabili, se le è dovuto procurare da sola, “da un lattoniere della zona”: una zona di muratori e operai, del resto.

“In generale, non sapevamo come arginare una cosa più grande di noi, che non eravamo in grado di comprendere e riconoscere, circondati com’eravamo da eventi drammatici e direttive confuse. Tutto passava in secondo piano rispetto alla sicurezza dei lavoratori e degli ospiti che però non capivamo come garantire. Le comunità contano una decina di ospiti, e bisognava spiegare a tutti che nessuno poteva andare dai parenti né ricevere visite. E come isolare i casi che presentavano sintomi. A nessuno veniva fatto il tampone… adesso qualcosa si muove: ma adesso, non prima”. Un contesto per definizione non adatto e difficilmente adattabile alle esigenze di distanziamento personale che ormai tutti conosciamo.  Perchè servirebbero stanze singole, bagni isolati, in luoghi pieni di persone che hanno bisogni di assistenza e di vicinanza elevati”. Peraltro, per alcuni ospiti che hanno problemi psichiatrici l’isolamento è sconsigliato o addirittura vietato.

“È stato uno tsunami che ci ha preso all’improvviso. L’impatto emotivo che abbiamo subito noi operatori è stato enorme…”

Delle cicatrici e delle ferite ancora fresche di operatori, operatrici e cittadini in balia di lutti e paure si sta già occupando da settimane Marianna Berizzi, psicoterapeuta che opera a Bergamo. “Fin dall’inizio, mi son sentita raccontare dell’emergenza Coronavirus da mio cugino che sta a Shangai, ho deciso di trasformare il mio lavoro in lavoro da casa. Tutti i miei pazienti sono stati disponibili a praticare video terapie. Così, fin al 26 febbraio ho raccolto spaccati di vita straordinari e rendermi conto di come l’aspetto psichico ed emotivo della provincia sta progressivamente cambiando. I motivi che avevano spinto i miei pazienti a intraprendere la terapia sono stati soppiantati dallo spirito di sopravvivenza. Sopravvivenza a uno stato di attesa, e disorientamento generalizzato. Molti – prosegue – erano operatori di struttura ospedaliera, tanto portavano il peso di chi ha dovuto portare una persona cara al pronto soccorso per poi magari scoprire da terzi che il loro caro era morto. Sono saltati, completamente, i protocolli del lutto. Un’attesa che porta solo disorientamento. E grande confusione ancora oggi”. E i nuovi pazienti chi sono, invece?

“Le nuove richieste arrivano da persone che devono tornare al lavoro, e non sanno se sono immunizzate o no, hanno paura.  Il covid ha scattato una fotografia di solitudine degli anziani, ma l’onda che arriva colpisce tutti, riguarda tutti. E bisogna procurarsi tutto ciò che serve da soli, fare tutto da soli”.

Già, la solitudine. Come un filo rosso che tiene unite i pezzi di questo rosario di sofferenze.

Da sola, riprende il discorso Francesca, “ho dovuto prendere decisioni difficili. Io sono il presidente e sono il datore di lavoro. Devo tutelare tutti. Cosa potevo fare per mettere in campo ogni necessaria misura di sicurezza?”. Quando si deve scegliere in fretta e da soli è più difficile. O meglio, sbagliare è più facile. “A volte mi sono pentita delle scelte fatte, altre volte ho fatto di testa mia, anche in maniera difforme rispetto alle direttive. Mi sono pentita di non aver chiuse le strutture. L’Ats ci ha fatto tenere aperti i servizi diurni e il 25 febbraio ci hanno mandato pure i controlli per vedere se eravamo aperti, pena revoca degli accreditamenti. Poi, a metà marzo, di mia sponte, ho offerto agli operatori di mettersi in quarantena nella struttura accanto alla nostra, a tutela delle loro famiglie. E quasi tutti lo hanno fatto, e ha funzionato!”.

Una solitudine che, in questo quadro, obbliga a vedersela da soli con la malattia, quando arriva, e col senso di colpa per averla presa e, forse, trasmessa. Un pensiero che si ripete, quasi uguale, di voce in voce.

“Noi operatori ci siamo ammalati tutti” riprende Donatella. “io ho avuto sintomi già il 28 febbraio. Il mio medico mi ha dato una settimana di malattia, e dicendomi che era influenza. Sono tornata prima, il giorno prima perchè nel frattempo si erano ammalati tutti. Per fortuna gli ospiti non si sono ammalati. Ma è stata solo fortuna, attenzione nostra, perché non c’è stata nessuna attenzione nei confronti rispetto alla nostra tipologia di utenza. La regione lombardia ha fatto delle deroghe per gli psichiatrici, rispetto ai divieti di uscire, ma ci è voluto tantissimo. Alcuni nostri operatori sanzionati dalla polizia locale perché li portavano fuori. La polizia locale ha sanzionato. E anche oggi stavo passeggiando con uno di questi ospiti che ha perduto la mamma di 54 anni di coronavirus. Non l’ha più vista, da un giorno all’altro. I vicini si sono lamentati perché andiamo troppo avanti indietro…”. L’essere sanzionati e additati, commenta Marianna, la psicoterapeuta, può portare a “non sapere più cosa è giusto a cosa è sbagliato. Non è detto che ciò che è giusto sia quello prescritto dalla normativa”.

Serviva chiarezza, dico, ingenuamente, a ogni livello. Ma, nota Beatrice, “la chiarezza è l’unica cosa che non ci potevamo permettere. Perché se prendiamo sul serio con chiarezza la vicenda, la malattia, i rischi per noi e soprattutto per gli altri, saremmo state a casa, tutte, dal primo giorno. A casa, e basta. Ma non si poteva. Poi avevamo il tema, tornando a casa, di lasciare tranquilli i nostri cari, di non farli preoccupare, di evitare di contagiare. Abbiamo vissuto e viviamo ancora una sospensione totale della vita per come la conoscevamo”. Ma non tutto è perduto, perché chi non si è perso in quei mesi bui non vuole certo perdersi ora. Nonostante una crisi economica che si preannuncia devastante anche per il terzo settore, con un calo delle entrate dovuto al fatto che diversi ospiti sono usciti di comunità per evitare il contagio, e quelle rette nessuno le pagherà. Nonostante l’assenza di domanda e le risorse tutte drenate da altre esigenze.

“Ma da ogni crisi può nascere un’opportunità. noi cooperative siamo nate per questo, per essere collaborativi e adattivi. E allora proviamo a fare qualcosa, non solo a subire”.
Non facile, quando i nuclei familiari degli operatori vivono, oggi, della cassa integrazione di lei, e del bar chiuso di lui, e i riflettori, adesso che – speriamo – l’onda piena dell’emergenza è passata, si sposteranno definitivamente altrove, lontano da questa provincia operosa che si è sentita il cimitero d”Italia. Dello Stato, e di chi lo supporta in maniera decisiva nei suoi compiti imprescindibili di sostegno agli ultimi, ci sarà tanto bisogno. Anche per questo, proprio per questo, è doveroso non dimenticare Bergamo. Non rimuovere quello che è successo qui. Perché non capiti più e perché, ancora prima, scordarsi tutto sarebbe un’altra ingiustizia. Intollerabile, come tutte quelle che hanno riempito di croci i cimiteri delle valli.

TAG:
CAT: salute e benessere

Nessun commento

Devi fare per commentare, è semplice e veloce.

CARICAMENTO...