Medicina

Ho smesso di fare il medico. Ma non di esserlo

Dopo anni in ambulatorio, la scelta più difficile: fermarsi.
Un racconto personale della figura del medico oggi, di diagnosi su Google, di stelline da playboy e del bisogno ( urgente ) di salvarsi.

30 Settembre 2025

Sono ancora un medico.
Ho solo smesso di curare chiunque tranne me.
Fare il medico è totalizzante.
Anche se non fai notti. Anche se sei libera professionista.
È un mestiere che ti divora in silenzio.
Devi essere presente e lucida sempre.
Anche quando il tuo compagno sta morendo.
Anche quando ti diagnosticano una malattia.
Anche quando la tua casa brucia. E guai ad avere la testa altrove.
Perché il paziente viene prima.
Sempre.
E se coglie anche solo una stanchezza, o un’esitazione…
Ah, la malasanità.
Ma che importa.
Lui, prima di arrivare da te, ha già fatto una diagnosi su Google.
Tu sei solo il refertatore dell’algoritmo.
Se confermi: bene.
Se non confermi: sei scarsa.
E allora?
Valutazione sul web.
Roba di like e dislike.
Le stelline. Come nelle agende dei playboy anni ’70:
Cinque e sei promossa.
Due se hai fatto ritardo di sette minuti.
Una se non hai sorriso.

Ci ho messo un po’ a capire che non potevo più andare avanti così.
Come sempre accade: le cose che non vanno, all’inizio, non le vuoi vedere.
Ti trascini. Ti dici: “Sarò stanca.”
“Forse mi serve una pausa.”
Ma guarda chi c’è: il senso di colpa.

Poi parli con i colleghi.
Scopri che il malessere è condiviso, ma si va avanti.
Sai, il mutuo. I figli all’estero .Chi la barca.

Chi invece ha bisogno. Punto.


Ma tu non vuoi finire nell’iperspazio del web con una stellina in meno solo perché sei stanca.
Allora ti prendi un anno sabbatico.
Anche perché, a casa, da accudire ce n’è sempre.
Cure per tutti. Tranne che per te stessa.
Ma almeno ti togli un pensiero fisso:
quello di dover essere perfetta ovunque.
Ne togli uno.
E già respiri.

È stato doloroso.
Diventare medico è un percorso lungo e a volte impervio.
Lasciare tutto sembra una resa.
Ma tra la sensazione di fallimento e l’istinto di sopravvivenza,
scelgo sempre il secondo.


Bisogna imparare a lasciare andare.
Tutto.
È la strada per la libertà.
E la libertà è guarigione.
Addio notti insonni, esami, ansie.
Addio anche ai successi, alle soddisfazioni che non sono mancate.
Lasciare andare non è perdere: è permettere una trasformazione.
Tua. E delle cose.
Che restano in te, come patrimonio.

È vero, ho tolto il camice.
Ma dentro, la voglia di “prendermi cura” è rimasta.
È nato un coraggio che va condiviso.
E che ti permette di dire:
“Anch’io l’ho fatto. Ora posso aiutare te a farlo.”
Puoi accompagnare.
Puoi indicare una sfumatura benefica da cogliere.

E quindi, sì, ho lasciato il poliambulatorio.
Ma non ho smesso di curare.
Solo: ho cambiato dimensione.


Il mio nuovo ambulatorio è su un albero.
No, non è una metafora.
E non sono impazzita.
È la medicina che sento.
Ne parliamo tra qualche giorno.

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