L’avventura del Pronto Soccorso

13 Maggio 2020

Sarà perchè contiene già il lunedì, ma la domenica sera non ho voglia di niente: il seme di tutte le sottili malinconie è stato lanciato all’imbrunire di Ogni maledetta domenica. “Ci difendiamo con le unghie e coi denti, per un centimetro. Perché sappiamo che quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale allora farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta”. Il monologo di Al Pacino è l’unica preghiera possibile, prima di addormentarmi, e provare a svegliarmi in partita.

Ma ieri sera alle undici e venti, spenta la luce, sovrapposti i due cuscini, entra in camera mia moglie con il cellulare che vibra, irrequieto come una mosca contro il vetro.

– È tua madre.

A quest’ora? Il problema è grave. In quei millesimi di secondo prima di rispondere mi preparo a resistere con le unghie e con i denti.

La sua voce è sfilacciata, senza saliva; c’è la supplica dell’inevitabile e la mortificazione del disturbare.

Manterrò la privacy sui dettagli, ma appena sento le parole Sangue e Troppo sono già vestito.

Ha paura, e deve per forza capire cos’è.

Ok. Pronto Soccorso.

Prendo la macchina in box, esco in strada, e mi accorgo di non avere la museruola obbligata. Ancora non mi entra in testa.

Mando un vocale a mia figlia, always connessa, e in un lampo è al portone con la mascherina sanificata nel pentolone alcoolico.

Piove, sette minuti di tergi a intermittenza e sono al citofono dei miei.

Mia madre si presenta alla porta con il pigiama di seta e la sua vestaglia blu. Le ciabatte con il tacchetto.

– Così come ero a letto, non ce la faccio nemmeno a vestirmi.

– Almeno le scarpe, mamma, piove.

– Ah, piove! – Questo imprevisto le pesa, la fa un po’ cedere.

Mentre prende una scarpa bassa e la infila senza slacciarla, mi chiede se non sia meglio, forse, chiamare prima il 118. Per chiedere consiglio.

E nel caso chiamare l’ambulanza.

– Oramai siamo in azione, mamma, andiamo e buonanotte.

– Altro che buona notte! – risponde. E riesce a sorridere.

Le ricordo la mascherina, la indossa, dice che però è di ieri. Come fosse una pietanza. Ma l’ha usata solo un paio d’ore. Boh. Andare all’ospedale di questi tempi già non è il massimo, ma non c’è molto da fare. Va bene, dai.

– Ma papa? -, mi preoccupo.

– Quello dorme, figurati.

Ed è vero, nonostante il casino che facciamo la sua espressione resta inattaccabile e altrove.

– Speriamo che non si svegli e si accorga che non ci sono – aggiunge mia madre, in ascensore. – Che poi va in stress! –

Speriamo.

Il PS della Multimedica di Sesto San Giovanni ha un’entrata laterale, lei non riesce a camminare, allora prendo la rampa e mi fermo in zona ambulanza per farla scendere davanti alla porta del PS. Vorrebbe che lasciassi l’auto lì, per dopo, e devo spiegarle che non si può.

– Non voglio entrare sola, che poi pensano che sto bene.

– Aspettami, tre minuti e sono qui.

Vado, posteggio su, torno. Ma non la vedo.

In quella che era la sala d’aspetto ci sono tre lettini. Dietro il vetro dell’accettazione una donna dallo sguardo buio mi intima bruscamente di allontanarmi, subito. Sono il figlio della signora appena entrata, dico, giusto per informazione. E non aggiungo che mi sono fermato ad almeno cinque metri, perché con una faccia così potrei finire per dare il peggio di me. Silenzio e arretro ancora, e me ne sto lì, dove arrivano le ambulanze, a camminare avanti e indietro.

Dopo pochi minuti spunta una nuova infermiera, e mi chiede da lontano cosa desidero. Sono il figlio della signora.

– È dentro.

– Lo so.

– Non può stare qui.

– Dove dovrei stare?

– Fuori.

La guardo allibito e muto. Intende proprio dove sta piovendo. Ma se ci vorrebbe una fionda, per lanciargli da qui la pallina Covid19! E poi non c’è nessuno. C’è solo mia madre. Che cazzo di paranoia gli ha preso a queste qui?

Si vede che la domenica sera sono abituate a godersela e stare qui gli prende malissimo.

Mi metto sotto una scala bucherellata.

E dopo pochissimo mi chiama ancora la giovane infermiera: “Figlio della signora!” Lo so, non suona benissimo. Mi allunga con un lungo gesto plastico la borsetta mignon di mia madre, ma avrebbe voluto lanciarmela. Torno sotto la scala, con questa taschina di pelle “color crème”, come chiama lei il beige pallido. Mi vien male mettermela a spalla, sotto una scala e una pioggia noir, allora la tengo stretta in una mano, così, come un animaletto da tenere buono.

Penso a mio padre, che non dovrebbe svegliarsi, a meno che non faccia qualcuno dei suoi sogni atletici. Una volta mia madre, richiamata da un piccolo urlo e da un tonfo, l’ha trovato per terra aggrappato con le due mani al lenzuolo: sognava di giocare al tiro alla fune, e aveva tirato con tutte le sue forze, fino a cadere dal letto.

Me la sto ridendo, quando una soneria da carrillon mi riempie la mano.

È sempre un’esperienza spaesante, rovistare nella borsa di una donna: gli oggetti che tocchi sono troppi, alcuni indecifrabili, e ognuno ti parla di profanazione. Finalmente intuisco la tavoletta del cellulare, in una cerniera laterale. Rispondo all’amica con la quale si era confidata prima di decidere di chiamarmi, e le riferisco il tutto.

Siamo già a mezzanotte e quaranta, quando compaiono nel parcheggio delle ambulanze mia madre accompagnata dalla giovane infermiera. Che mi si avvicina a un metro, quando prima mi lanciava segnali di fumo.

– Allora, come sta?

La ragazza temporeggia qualche secondo di troppo.

Lo sguardo di mia madre mi sta dicendo: “Poi ti dico io!”

– Sua madre sta bene, non ha niente – riesce a esordire l’infermiera.

Ma se… E ribadisco i sintomi, eloquenti. E il sangue.

– Sì, l’abbiamo visto il sangue, ha una… – e dice una brutta infiammazione emorragica, che ha bisogno di antibotici per dieci giorni, e riposo. – Ma non doveva – e comincia a balbettare, sembra che debba trovare il coraggio – comunque venire al PS… Per cui è un codice bianco e deve pagare 25 euro.

Una vecchia signora che a mezzanotte chiama una carrozza familiare, perchè perde sangue da tutto il giorno e non riesce a camminare; esce in pigiama e vestaglia ed è l’ultima cosa la mondo che vorrebbe fare. E qui non c’era un’anima in fila.

Questa la situa che le sintetizzo. Mi ascolta distratta, tanto lo sa benisismo anche lei, ma si vede che è stata mandata in avanscoperta.

– Quindi lei sta scherzando – aggiungo senza punto di domanda.

– No, il dottore lo ha deciso – risponde l’infermiera ormai con la convinzione al lumicino.

Mia madre, stranamente, è riuscita a tacere, ma nei suoi occhi leggevo la verità compressa, che mi racconterà in auto. Quel dottore l’ha fatta aspettare almeno venti minuti, seduta, prima di visitarla, mentre se la raccontavano e ridevano, lui e le due infermiere. Quando ha chiesto un bicchiere d’acqua, le hanno risposto che tanto adesso la mandavano e casa e l’avrebbe bevuta lì. E per lavarsi le mani, ha dovuto chiamare tre volte, prima che la ragazza dell’obolo si alzasse dalla sedia sbuffando. Nella valutazione finale si certifica una visita con palpazione all’addome, mentre lei non è stata nemmeno sfiorata: appurata la presenza del sangue le hanno prescritto l’antibiotico.

– Mauri, nessuna umanità, credimi!

Quando dice Credimi, io le credo sempre.

– Ok, ha detto che mi ha lasciato la ricevuta, ci penserò io; la ringrazio, e ringrazi il dottore – concludo la conversazione con la giovane infermiera. Che a quel punto se ne va con dispetto.

Non c’era nessuna ricevuta nei documenti, e non avendo nessuna macchinetta bancomat, sperava in un contante al volo. Ci ha provato. Forse per festeggiare con i colleghi e quei pochi euro una domenica sera triste. Un tentativo di una miseria che mi lascia sconfitto, in un tempo in cui il personale sanitario ha conquistato la stima assoluta.

Ma si conferma che esistono solo esseri umani, che si smentiscono l’un l’altro, non categorie. E che una buona fetta di italiani galleggia nel vuoto emotivo, senza empatia.

Accompagno mia madre fino alla porta di casa. La tripla mandata della chiave nella serratura fa tremare il pianerottolo.

Anche se quell’antibiotico è una bomba, il peggio è comunque scongiurato, dico con ottimismo. Quella brutta gente non ci riguarda, l’importante è l’esito, aggiungo per addolcire la sua amarezza e la mia rabbia.

È l’una passata. Mio padre dorme, identico a come lo abbiamo lasciato.

Mi piacerebbe sapere cosa sta sognando.

TAG: assistenza sanitaria, empatia, Pronto soccorso
CAT: Sanità

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