Un caso fiorentino su quale governance fa più schifo: sanità o università?

25 Agosto 2015

“L’università può chiamare chi vuole, ma i primari a Careggi li scegliamo noi”. Con questo virgolettato shock (almeno per me), comparso sull’edizione di Firenze di Repubblica, l’assessore alla sanità della Regione Toscana Stefania Saccardi, un tempo vice-sindaco e braccio destro di Renzi quando guidava Firenze, mette in chiaro che sulla “governance” della cosa pubblica non si scherza. Il caso, che ruota intorno a un cardiologo che l’università vorrebbe chiamare dall’estero, è anche un mirabile contrappunto alle polemiche di questi giorni sulla attribuzione della conduzione di musei italiani a stranieri per nazionalità o esperienza. E Careggi, Azienda Ospedaliera Universitaria di Firenze, dove si incontrano (e scontrano) sanità e università diventa il caso di studio ideale per un confronto su chi di questi due mondi ha la “governance” peggiore. Suggerisce anche un pensiero di ironia e commiserazione per Goram Gutgeld e Roberto Perotti, e tutta la schiera di spending reviewer che li hanno preceduti. Loro, e con loro tutti noi siamo stati di fatto ipnotizzati dalla famosa siringa dal costo disuguale, mentre questi  conflitti di “governance”  fanno intravedere il rischio di ben altre punture alle natiche dei contribuenti e ben altri salassi dalle loro vene.

Il fatto è che il dipartimento di medicina dell’università di Firenze, in vista del pensionamento a novembre di un guru, o barone, della cardiologia, avrebbe individuato in un cervello in fuga, a Londra, il futuro sostituto. Ma l’assessore regionale alla sanità toscana ha annunciato la propria volontà di mettersi di traverso, riservandosi di discutere il caso con il rettore dell’università di Firenze, di cui il pezzo di giornale riporta che “non abbia molto gradito la mossa del dipartimento di medicina”. Insomma, il caso è questo: il dipartimento di medicina ha deciso la chiamata di uno dall’estero ritenendolo il miglior sostituto del barone che sta per andare in pensione. L’assessore dice che il miglior sostituto lo deve scegliere lei, che di professione è avvocato, sentito il rettore, che è un docente di chimica.

Com’è possibile che un avvocato e un chimico possano sindacare la scelta scientifica di un dipartimento di medicina? Verrebbe voglia di schierarsi con il dipartimento, anche se sappiamo che nell’immaginario collettivo a partire da Pinocchio la figura del luminare di medicina è strettamente legata a quella del barone. E in effetti se scaviamo un po’ di più sulla vicenda troviamo tracce di baronosauri: un fossile di concorso bloccato perché i partecipanti erano indagati; il fatto che il luminare che doveva venire da Londra non aveva l’abilitazione da ordinario, e non sappiamo se non l’ha chiesta, o se l’hanno bocciato. Certo che indire un concorso e vederlo bloccare dalla procura e poi scoprire che un dipartimento cerca di usare la “chiamata diretta” da ordinario per chiamare uno che non ne ha i titoli potrebbe far arrabbiare avvocati, chimici, e persino trombai (termine fiorentino per idraulici, a rappresentazione di tutte le altre categorie). Per questo non ci schieriamo nel caso specifico, e cerchiamo, io che conosco il mondo accademico e mia moglie, che è medico ospedaliero e dovrebbe conoscere la sanità, di scoprire chi dei due può vantare la “governance” più schifosa.

La “governance” del sistema sanitario ce l’ha spiegata l’assessore Saccardi in maniera molto concisa. I primari li sceglie la politica, come la politica sceglie i direttori sanitari. Per i direttori sanitari, il legame è diretto, e la regole è di persone che passano da sedi di partito a unità sanitarie. Forse c’è anche un motivo, perché questi dirigenti poi devono sindacare le scelte su reparti e organizzazione con sindaci e rappresentanze politiche sul territorio. Sui primari, la cosa è meno diretta, perché dovrebbero essere scelti sulla base di un concorso (così racconta mia moglie), ma i concorsi sono più un ostacolo e uno strumento che altro: lo dimostra quello del caso di Firenze, per cui anche il giornale oggi riporta il nome di chi lo avrebbe dovuto vincere. Ma nel caso di studio di Firenze si va oltre: l’assessore dice che se il prescelto è un “interno” non c’è neppure bisogno di concorso, basta l’investitura di un avvocato che fa l’assessore, sentito un chimico che fa il rettore.

La “governance” dell’università è diversa. Non è necessariamente determinata dalla politica, essa è politica. Il rettore di Firenze è eletto, come sono eletti tutti coloro che hanno una responsabilità nell’università. Io faccio il coordinatore di un corso di laurea perché sono stato eletto, e ho cominciato da poco il mio secondo (e ultimo) mandato. Per fare il rettore, quindi, non conta tanto il curriculum vitae, non conta se si conosce la macchina meglio degli altri o l’esperienza che si è svolta, ma conta come si fa la campagna elettorale. Conta la comunicazione, conta saper fare promesse a tutti e non offendere nessuno. Nel corso dell’ultima campagna per l’elezione del rettore dell’università di Bologna, in cui lavoro, ricordo un articolo del Fatto Quotidiano che riconosceva di non capire il senso del confronto tra i candidati. Era troppo vicino a quello delle elezioni della politica, con parole d’ordine che vanno sempre bene: cambiamento, rinnovamento, largo ai giovani. Il risultato è che la responsabilità di un intero ateneo non dipende da un’analisi del curriculum vitae fatto da un ente indipendente, ma da un mercato di interessi tra categorie di dipendenti e dipartimenti.

Il rettore non governa da solo, ma presiede un consiglio di amministrazione in cui siedono consiglieri eletti e nominati. Il consiglio di amministrazione di un’università è una cosa strana, almeno nella mia esperienza. Ricordo che ho mandato una lettera a tutti i consiglieri in cui minacciavo un esposto alla Corte dei Conti, e non ho ottenuto neppure risposta. Non mi risulta che in Italia ci siano casi di azioni di responsabilità in capo a consigli di amministrazione di università e non mi risulta di casi in cui qualche consigliere di amministrazione abbia alzato la voce sulla stampa in disaccordo con un rettore. Insomma, non mi risulta che i consigli di amministrazione abbiano contribuito granché alla “governance” delle università italiane. Forse è un organo inutile, forse basterebbe il rettore. O forse dovrebbe essere investito di maggiori responsabilità. Nel mondo della sanità, il problema invece non c’è. Non mi risulta che i nostri ospedali o le nostre unità sanitarie siano governate da un consiglio di amministrazione, a ribadire che la “governance” è politica.

Insomma, l’esempio dei musei è destinato a restare isolato. In effetti a nessuno è sembrato curioso che per dirigere un museo non si proceda a un’elezione, ma a una valutazione di curriculum vitae fatta da esperti indipendenti. Perché allora eleggere i rettori? E perché susciterebbe un vespaio la proposta di far scegliere chi deve gestire un ateneo da una commissione indipendente sulla base del cv? Perché questa differenza? Forse che i musei hanno a che fare con la cultura e le università no? Invece sulla sanità c’è lo strapotere della politica, nella scelta della “governance”, e poi nella sua gestione, su cui intervengono i rappresentanti della politica sul territorio. Perché non unificare cultura, istruzione e sanità? Per i rettori si faccia una commissione di esperti, italiani e stranieri, e vengano valutati sul loro curriculum di esperienza manageriale nell’università, e si cerchi anche all’estero. E si faccia lo stesso per la sanità. Se si trova eccessivo votare un senatore, perché continuare a votare un rettore? Tranquilli. Parliamo di fantascienza. Se si tratta di musei, passi, ma con l’università e la sanità il gioco si fa duro. E quando il gioco si fa duro, i duri non ti fanno giocare.

TAG: Governance, sanità, spesa pubblica, Università
CAT: Sanità, università

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