La scommessa di promuovere benessere nel cambiamento
“La robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre l’una sull’altra” (L. Wittgenstein)
Con questi pensieri provo a mettere insieme alcune idee maturate nel percorso di studio, in quello professionale, poi nella politica e, negli anni più recenti, nel lavoro di rete all’interno di alcuni quartieri della mia città. La vivo come un’opportunità per mettere ordine nei miei pensieri e lanciare un ponte verso il futuro, nella speranza che dall’altra parte ci sia una sponda!
Il cambiamento, la trasformazione delle dinamiche sociali ed economiche è spesso associato all’idea della crisi; scelta inevitabile, subita dall’esterno a cui arrendersi.
Molti dei passaggi d’epoca che stiamo vivendo (crisi economica, ambientale, migrazioni, nuove tecnologie) lasciano le persone ed i gruppi impreparati davanti ai cambiamenti; costrette a subirli, percependosi così, a diverso grado, come inadeguate, impreparate fino a sentirsi ai margini ed escluse dai cambiamenti stessi. Persone e gruppi sociali vivono un profondo senso di impotenza e frustrazione maturando la netta percezione di non poter fare nulla di significativo per migliorare le proprie condizioni di vita o, almeno, adattarsi ai cambiamenti sentendosene piuttosto “prigionieri”.
Dentro le situazioni di vita quotidiana dei nostri giorni provare ad abbozzare una nuova prospettiva significa promuovere, come “vocazione” del lavoro sociale (e politico), l’accompagnamento e l’abilitazione a vivere il cambiamento in positivo. Passare da un’idea di cambiamento come fonte prevalente di malessere a spazio e tempo di benessere personale e sociale.
Per fare questo occorre, passo dopo passo, attivare e abilitare le persone ed i gruppi locali a promuovere dal basso il cambiamento.
E’ fondamentale, nel contempo, aprire canali di interazione con le politiche pubbliche evitando che le persone perseguano quelle che Hirschman in “Lealtà, defezione, protesta” definiva le opzioni di uscita e abbandono (exit) degli interessi pubblici dando voce (voice) alla ricostruzione di nuove forme di lealtà e di fiducia (loyalty) nelle istituzioni e nelle relazioni sociali. Si tratta di procedere con pazienza certosina lungo due direzioni: sviluppare le competenze individuali e rafforzare la collaborazione comunitaria.
Occorre operare per promuovere il cambiamento, anche dal basso, per mutare nel presente, un passo alla volta, le condizioni di vita delle persone nelle comunità in cui vivono, abitano e lavorano lasciando da parte logiche di sterile critica ideologica al “sistema” basate sull’adozione di categorie desuete e senza sbocco.
Tutto questo potrebbe essere possibile (un po’ di cautela nelle cose della vita è d’obbligo) favorendo e facilitando spazi di auto-organizzazione locali. Spazi da fare nascere nei quartieri delle città, nei paesi insieme a occasioni di robusta connessione tra le richieste dei cittadini e le risposte delle istituzioni del governo locale. Ciò significa chiamare in causa la responsabilità e il ruolo di politici, assessori, funzionari della Pubblica Amministrazione, responsabili di servizi connessi a tutti i temi della qualità urbana oltre alle risorse private.
Si tratta di un percorso finalizzato a promuovere politiche pubbliche di innovazione e di inclusione sociale, che abbiano nel tema del benessere (inteso come insieme delle “capacità umane”) la propria stella polare. Per approfondire il tema delle capacità umane consiglio caldamente la lettura di Martha C. Nussbaum (2012), Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, il Mulino.
Un benessere che parte dal lavoro sul senso di autoefficacia del proprio ruolo personale per essere cittadini, protagonisti attivi di buone pratiche di cambiamento. Un benessere inteso come qualità della vita quotidiana (abitare, muoversi, lavorare, divertirsi, stare insieme, mangiare, coltivare hobby, fruire e costruire proposte imprenditoriali, culturali, sociali…) nella connessione con gli altri individui, con i gruppi (informali e formali) e le istituzioni locali.
In particolare le condizioni dell’abitare costituiscono un campo delicato nelle relazioni con le persone ed i nuclei famigliari; smuovono ricordi, suscitano bisogni elementari e desideri, richiamano rapporti di vicinato, storie personali che hanno segnato i luoghi con ferite e gioie, lutti e nascite, senso di solitudine.
1. Il lavoro di rete per la coesione sociale 3.0
Lavorare in rete è adottare una pratica che comporta l’agire a “tappe” in diversi contesti per promuovere processi sociali fatti di conoscenza, sviluppo di relazioni e creazione di legami tra le persone ed i gruppi locali.
Il lavoro di rete è uno strumento utile per dare corpo alla scommessa di quella che il sociologo Richard Sennett definisce come la “collaborazione umana” che può costituire, anche all’interno delle dinamiche sociali ed economiche conflittuali, un’occasione per mettere in atto giochi a somma positiva (win win).
Il lavoro di rete conduce ad operare sul campo mediante una serie di tappe:
-attività di ricognizione per realizzare una mappatura delle risorse territoriali;
-sportelli di ascolto attivo per raccogliere problemi e risorse potenziali trasformandole in sollecitazioni ed indicazioni di governance per la PA;
-costituzione di gruppi informali di conoscenza ed emersione comune di problemi e soluzioni possibili intorno a specifici temi oggetto d’attenzione;
-realizzazione di azioni di informazione, comunicazione per promuovere la calendarizzazione e l’intreccio delle attività e delle risorse locali;
-attività di progettazione;
-emersione e sostegno ad istanze locali.
Fanno in questo senso a pieno titolo parte del bagaglio dell’operatore di rete in contesti comunitari pratiche di mappatura, ricerca-azione, coordinamento, co-progettazione, facilitazione, uso di metodologie di gestione di piccoli e grandi gruppi, attività di advocacy, operazioni di ascolto strutturato e orientamento in merito alle esigenze delle persone e dei gruppi locali.
In questo modo si promuove un’opera di conoscenza e connessione tra i diversi livelli di responsabilità e di intervento intorno alle politiche territoriali: 1) cittadini, 2) gruppi locali e 3) istituzioni. Un’interazione che, alla luce dei 3 livelli, potremmo definire “coesione sociale 3.0”.
2. La cassetta degli attrezzi della comunicazione sociale
Nelle nostre vite la comunicazione (web, canali televisivi, canali radiofonici, testate giornalistiche, comunicazione politica e commerciale) e gli oggetti che nel loro insieme la “fanno” (smart phone, social network, app, siti, newsletter, tv, radio, manifesti, volantini, cartoline, house organ, free press, giornali e riviste…) sono sempre più presenti ed invasivi.
Questi strumenti e processi costituiscono un bombardamento da più fonti che rappresenta una pressione, una forma di persuasione e condizionamento; parte rilevante nei processi di socializzazione, formazione e apprendimento e nella costruzione del cosiddetto “senso comune” e nell’orientamento della pubblica opinione.
Si tratta di una comunicazione sempre più giocata nella logica dei frame, delle cornici di senso e d’interpretazione (si veda George Lakoff, Non pensare all’elefante!), che dettano parti consistenti dell’agenda politica e delle soluzioni prioritarie (quasi obbligate, d’emergenza ed inevitabili!) rispetto ai problemi del nostro tempo, inclusi quelli di natura sociale.
Dentro a questo panorama pensiamo alla possibilità di usare i canali di comunicazione della postmodernità come opportunità per promuovere un “contributo netto positivo alla vita umana” (Tristan Harris, Distracted? Let’s make technology that helps us spend our time well | TEDxBrussels) mettendo l’accento su comunità, relazioni, scambio, condivisione.
Già quote consistenti di cittadini (in veste di consumatori, utenti e clienti) quotidianamente utilizzano il web ed i social network per orientarsi nelle scelte d’acquisto di beni e servizi. Non sono da meno i più giovani che fanno di questi strumenti e canali spazi e tempi di socializzazione, divertimento e condivisione (con tutte le derive e ossessioni del caso!).
Tenendo conto di tutto questo esiste l’opportunità di promuovere “saggezza e competenza digitale” e quello che Luca De Biase definisce come “web collaborativo” a partire dalla “costruzione” di regole d’uso condivise degli strumenti digitali per non restare prigionieri di una loro fruizione passiva e convenzionale.
Regole d’uso e spazi di interazione che non si danno e realizzano una volta per tutte ma che vanno co-costruite nei diversi contesti di vita (scuola, famiglia, quartiere…) per promuovere relazioni, legami sociali ed esperienze di senso.
Pensiamo al potenziale costituito da un uso sfidante e creativo degli strumenti della comunicazione digitale come elementi di “comunicazione sociale”.
A titolo d’esemplificazione (quello che si potrebbe fare ed è già stato fatto):
-la realizzazione di foto e video nell’ambito di azioni di coinvolgimento attivo per progetti sociali di promozione e prevenzione (photo voice);
-l’uso degli smarphone per promuovere connessioni di comunità;
-la costruzione partecipata di prodotti multimediali con il coinvolgimento delle utenze a cui è destinato il messaggio (filmati a format intervista doppia, brevi spot, raccolte fotografiche…);
-l’uso di pagine facebook per promuovere social street, la biblioteca di condominio di Via Rembrandt di Milano;
-l’uso di twitter per favorire connessioni locali e lavorare sulla storia, il presente e il futuro dei luoghi;
-la gestione di whatsapp per creare e sostenere gruppi locali;
-la co-progettazione o gestione creativa di alcune app e video giochi.
Si tratta di coltivare e sprigionare creatività per una cultura digitale da fare vivere nel continuo “ping-pong” tra reale e mondo dei social con momenti di raccolta e di incontro mediata dagli schermi e occasioni di operatività territoriale locale “faccia a faccia” intorno a questioni di interesse e sensibilità sociale.
Ci riferiamo ad attività di prevenzione e promozione di coesione sociale che potrebbero andare dall’intercultura, al consumo di sostanze, al cyber bullismo, al benessere nell’accezione ampia che parla di alimentazione, attività fisica, consumo di alcool, droga, salute mentale, protagonismo civile dei più giovani, sostenibilità ambientale, contrasto delle discriminazioni fino al tema della conoscenza del genius loci.
3. Promuovere spazi e tempi di reciprocità nei contesti urbani
L’epoca presente pone sempre più la sfida di una profonda delegittimazione del cosiddetto establishment; classi dirigenti, istituzioni democratiche, tanto quelle del governo locale, quanto quelle nazionali e continentali.
La delegittimazione e la disaffezione è testimoniata da una serie di indicatori in caduta libera come, solo per fare due esempi, la crescente astensione dal voto e la riduzione del numero di copie dei quotidiani. Nel contempo si afferma una crescente tendenza a fare da sé, disintermediando nelle scelte quotidiane.
Pensiamo che un contributo utile per provare ad intervenire in questo panorama possa essere fornito lavorando sulla reciprocità nelle relazioni tra persone per dare nuova linfa ai sistemi di welfare locale.
Si tratta di creare, dal basso, partnership tra pubblico e privato, attivare circuiti di sharing economy e di cittadinanza attiva.
Ipotizziamo la possibilità di dare corpo ad un modello di innovazione sociale teso a favorire la nascita di nuove forme di welfare comunitario e di territorio.
Un impegno per ricostruire network relazionali, supportati da luoghi fisici (spazi di riferimento, di incontro, di condivisione, di attivismo civico e commerciale) e dalle tecnologie digitali, per ingaggiare e coinvolgere le persone nel collaborare tra loro, con le realtà locali e con la PA, valorizzando, nel contempo, le reti informali.
La sfida è rappresentata dal promuovere l’ideazione e realizzazione di community hub (spazi fisici da trasformare in luoghi) capaci di costruire e ricostruire relazioni comunitarie promuovendo competenze per il cambiamento, accompagnando e consolidando dinamiche di reciprocità tre le persone ed i gruppi locali.
Si tratta di un’idea già messa in atto, con forme e modalità diverse, nell’esperienza delle case di quartiere della città di Torino, nella Biblioteca delle cose – Leila project di Berlino e Vienna solo per citare qualche caso.
4. Una discussione in progress
A compendio di quanto scritto espongo qui di seguito alcune considerazioni personali a comporre un alfabeto incompleto (dalla A alla H).
Affronto alcune questioni critiche per limitare gli errori e le scorciatoie che si potrebbero prendere lungo il percorso verso l’orizzonte indicato.
A. Promuovere partecipazione oltre la retorica partecipativa
In anni più recenti la politica e le istituzioni hanno cercato di recuperare terreno puntando su una serie, tanto vasta e generosa quanto confusa, di nuove esperienze di coinvolgimento dei cittadini che spesso generano frustrazioni e incomprensioni; un cantiere di sperimentazione democratica solcato da luci ed ombre. Una partecipazione che vive di pratiche partecipative e troppa retorica partecipativa. Spesso si sente parlare di partecipazione politica e sociale come panacea di tutti i mali. A fronte di tutto ciò lo strumento teorico della “scala di partecipazione” (elaborata da Sherry R. Arnstein e rivista da David Wilcox) costituisce una preziosa cartina di tornasole per analizzare il senso delle diverse esperienze partecipative.
Occorre infatti considerare i processi partecipativi nella loro pluralità per evitare di definire in maniera troppo generica e mitizzante la partecipazione quando, nei fatti, si ha a che fare con l’attivazione di una varietà di dinamiche e pratiche di coinvolgimento: semplice informazione, comunicazione, consultazione, mediazione di conflitti, vero e proprio potere delegato. Andando oltre la retorica partecipativa dove tutto (e niente) è partecipazione ci si dovrebbe orientare a mettere in atto pratiche partecipative efficaci e trasparenti (dichiarandone anticipatamente la portata e le finalità, limiti inclusi!) pena lo svilimento del concetto stesso di partecipazione.
Dobbiamo abituarci a pensare che la partecipazione è come un farmaco e come tale andrebbe somministrato seguendo alcune “Avvertenze” scritte nel bugiardino:
-la partecipazione può risolvere i conflitti, ma anche generarli;
-la partecipazione non conduce all’assenza di conflitti ma contribuisce a costruire modi più efficaci e creativi per gestirli e risolverli;
-la partecipazione non è indispensabile in tutte le occasioni pena il suo fallimento;
-nella partecipazione, come in molte altre cose della vita, i comportamenti comunicano molto più delle affermazioni;
-a partecipare non è mai un’intera comunità ma alcuni gruppi e persone che costituiscono le cosiddette minoranze attive che si impegnano.
B. Diffondere efficaci pratiche per i piaceri della partecipazione
Partecipare costituisce spesso una fatica soprattutto quanto la partecipazione comporta una grande quantità di tempo speso per riunioni e assemblee conflittuali senza capo nè coda e ancor più quando partecipare non porta a risultati (paradigmatica per antonomasia della partecipazione respingente e l’assemblea condominiale!). Escludiamo poi l’idea che non si intenda promuovere partecipazione per la ristretta cerchia di chi partecipa a prescindere (appassionati di politica, sindacalisti, insegnanti in pensione…).
Fare partecipare significa aprire un canale per fare crescere fiducia (ci vuole tempo!) e creare aspettative che se non adeguatamente sostenute (non solo alimentate!) rischiano di produrre un effetto boomerang.
Le dinamiche partecipative efficaci e piacevoli si misurano su azioni e progetti limitati, modesti e concreti, sullo stare e, ancor di più, sul fare insieme qualcosa. Quelli che sempre Richard Sennett definisce come i “piaceri del partecipare” in questo senso derivano dal riconoscimento dell’alterità come elemento di ricchezza rappresentata dall’altro e dal celebrare le possibilità di fare insieme e dare un senso nuovo e nuove soluzioni a questioni quotidiane. In queste esperienze l’ascolto reciproco, la comprensione si concretizzano nel fare un passo avanti abbattendo stereotipi e pregiudizi, dando una possibilità alla speranza e alimentando “l’ottimismo della volontà” di gramsciana memoria.
C. Gestire e prevenire i conflitti da malessere nel cambiamento
La mancata partecipazione, il mancato ascolto, la cattiva ed inutile partecipazione produce e riproduce conflitto che si autoalimenta nel perpetuarsi dello status quo e del malessere che aveva prodotto lo slancio o la scommessa iniziale a partecipare.
La partecipazione negata e la partecipazione inefficace sono le due facce di una cattiva moneta che fa circolare sfiducia, rassegnazione e ulteriore malessere.
D. Abbasso gli specialisti, viva i sarti!
Talvolta a farsi carico della partecipazione sono specialisti di diversa natura (architetti, sociologi, psicologi, antropologi…) che arrivano con la loro valigetta di saperi e con soluzioni partecipative preconfezionate immaginando la partecipazione come un percorso per convincere e dirigere persone, gruppi e comunità locali a prendere per buone scelte e politiche pubbliche già preconfezionate o definite a priori.
In questo modo non si considera il valore prezioso che c’è nella pratica della collaborazione non direttiva (dialogica) e nell’imparare dai processi partecipativi che mettono in gioco i partecipanti (dai cittadini, ai pubblici amministratori, ai gruppi locali fino ai saperi esperti) guardando ai problemi e alle soluzioni possibili, integrando diversi saperi, bisogni e desideri secondo una logica di complementarietà.
Lo specialismo utile e irrinunciabile consiste invece in un sapere umile che si sporca le mani e sta dentro i processi sociali di piccola scala accompagnandoli. Un sapere artigianale fatto di facilitazione, ascolto, conoscenza, gestione dei gruppi e dei conflitti, uso degli strumenti di comunicazione e di quelli teorico pratici del lavoro di rete per promuovere cambiamento in quello che Marianella Sclavi definirebbe come “ascolto attivo” degli attori in campo.
A questo cambio di paradigma partecipativo si adatta meglio una figura artigianale per antonomasia: il sarto o, al limite, il giardiniere.
Molte delle proposte attivate ed emerse in un contesto particolare non sempre possono essere riproposte in contesti differenti; costituiscono metaforicamente un “abito” che necessita di adattamenti sulle caratteristiche peculiari del territorio, in un particolare momento storico e sociale.
E. Prove ed errori: sperimentare ed ancora sperimentare
La sfida è quella di provare e riprovare, di sperimentare politiche e vedere i risultati che si ottengono considerando la valutazione e il monitoraggio delle azioni e dei progetti come parte costitutiva del processo secondo una logica di continua implementazione ispirata al metodo scientifico falsificazionista (Karl R. Popper), alla gestione creativa delle divergenze e delle criticità.
In questo senso la partecipazione si costruisce e si perfeziona attraverso la sperimentazione pratica ed un atteggiamento personale aperto alla critica e all’apprendimento dall’esperienza. Promuovere pratiche partecipative efficaci non significa definire spazi e tempi a corredo e complemento delle attuali modalità di governo e di funzionamento della PA dunque, ma costruire contesti e processi di dialogo e indagine congiunta fra PA e cittadini. La partecipazione va intesa come un processo di comunicazione a tutto tondo, con mente aperta, come un viaggio alla scoperta di nuovi mondi per mettere in comune e fare coesistere esperienze, stili di apprendimento e decisionali, convinzioni, interessi, saperi e risorse diverse. Si tratta di superare la dicotomia bottom-up/top-down per disporsi alla logica del mutuo apprendimento.
F. Partire dal piccolo, partire dal basso per cambiare passo
Occorre agire a livelli multipli; individui, piccoli gruppi di varia natura associativa, gruppi informali, comunità locali, quartieri, parrocchie, comunità di pratica, comunità virtuali, organizzazioni politiche e sociali.
Sono questi i livelli nei quali vivono e agiscono gli individui nel contesto sociale, livelli nei quali occorre con attenzione individuare i pubblici a cui si indirizza ogni specifico invito a partecipare (e relative finalità e limiti!).
Non si tratta di lodare retoricamente ciò che è piccolo in nome del “piccolo è bello”. Piuttosto occorre costruire progetti e implementarne potenzialità ed efficacia a partire da condizioni delimitate e circoscritte, misurabili e replicabili nel nome del “piccolo è verificabile”.
Azioni comunitarie implicano la possibilità di operare micro patti di cittadinanza attiva con esperienze collaborative che nascono, per esempio, intorno alla fruizione e valorizzazione di spazi comuni sotto utilizzati o abbandonati (nascita e presa in cura di orti, cortili, giardini, parchi, aree pedonali…).
In questo modo si opera su una dimensione identitaria concreta nella quale si realizza il passaggio dalla scala individuale a quella di piccolo gruppo.
Allo stesso tempo, in altre pratiche d’ascolto su piccola scala, attraverso attività di ricerca-azione si raccolgono informazioni per promuovere soluzioni sostenibili con, a titolo d’esempio, protocolli di intesa, riorganizzazione della presenza di personale e mezzi della PA.
Queste operazioni microcomunitarie si fanno nascere e accompagnano lavorando con pazienza sulla connessione e intreccio tra i bisogni locali dei cittadini/abitanti con le risorse e le competenze delle agenzie locali della PA. Le soluzioni sperimentate saranno poi adattabili e replicabili su scala più ampia con azioni di prevenzione e di promozione della qualità urbana.
G. Ricordarsi (sempre) dell’immenso potenziale della generatività
La generatività sociale, apre spazio all’inatteso, alle capacità creative del contesto e delle relazioni sociali che si mette in moto nel processo di investigazione delle possibilità d’agire tra persone e gruppi locali.
“La generatività si manifesta nell’arte, nel lavoro cooperativo, nel volontariato, in certa imprenditorialità, nell’artigianato”. E si realizza, come sostiene Mauro Magatti, in quattro tempi: “desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e, infine, lasciar andare”.
La generatività è spazio e tempo di conoscenza e di creatività sociale, di mutuo apprendimento. La generatività è scommessa vinta in termini di realizzazione di giochi a somma positiva (win win). La generatività mette in gioco l’altruismo e la collaborazione umana a contatto con il principio di realtà portando le persone a definire nuove opportunità di “vita activa” (Hannah Arendt).
H. Piegare il primo assioma della Legge di Murphy
Spesso nei fatti sociali e nel loro riverbero sulle cronache e nel successivo passaparola che ne deriva “le cose vanno male, sempre peggio”; si è imprigionati in situazioni frustranti nelle quali, per citare il primo assioma della Legge di Murphy, “se qualcosa può andar male, lo farà”.
E’ come se ci si disponesse inevitabilmente a precipitare verso il fondo e se possibile a scavare per scendere ancora più in basso alimentando dosi crescenti di rancore.
Questa percezione è generata anche dai mezzi di comunicazione e si alimenta nella ripetizione di falsità o mezze verità e scorciatoie cognitive più propriamente definibili come sostiene Harry Frankfurt “bullshit”; quelle che Goebbels delineava nel “ripetete una bugia cento, mille e un milione di volte, diventerà una realtà”.
Nello logiche di comunità tutto questo produce rassegnazione, depotenziamento delle capacità e possibilità di agire, depauperamento della resilienza.
Per piegare la profezia che si autoavvera occorre avere in testa e nel cuore voglia di immaginare il cambiamento e di perseguirlo con tenacia, passo dopo passo, creando capacità umane e collaborazione con chi sta intorno a noi perché come declamava John Donne “nessun uomo è un’isola completo in se stesso, ciascuno è un pezzo del continente, una parte del tutto”.
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