Donnarumma e la religione della scuola

6 Luglio 2017

Fino a qualche giorno fa per me Donnarumma era il personaggio di un dimenticato romanzo di Ottiero Ottieri del 1959. So ora che esiste un altro Donnarumma – per la stragrande maggioranza l’unico Donnarumma – che fa il portiere del Milan. Di lui parlano i giornali perché ha rinunciato a sostenere gli esami di Stato in un istituto paritario per andare ad Ibiza. Scelta che Gramellini ha ieri seriamente bacchettato sulla sua rubrica sul Corriere della Sera. Perché indignarsi se un giovane calciatore già milionario rinuncia alla scuola, dice Gramellini, in un paese in cui la scuola è considerata null’altro che uno strumento per trovare lavoro? Il lavoro Donnarumma l’ha già, ed è un lavoro che gli fa guadagnare milioni. “Magari tra qualche tempo cambierà idea e colmerà la lacuna, perché le cose iniziate è sempre meglio portarle a termine, anche solo per una questione di carattere. Oppure no, e in tal caso resterà iscritto per tutta la vita al club dei ricchi ignoranti, in Italia così frequentato che non correrà mai il rischio di soffrire di solitudine”, conclude amaramente Gramellini.
Ha ragione, Gramellini, la scuola è considerata in Italia da molti un modo per trovare lavoro ed affermarsi professionalmente. Ma non solo oggi, né solo da qualche anno. Non è un segno della decadenza attuale dell’istituzione. Già la Scuola di Barbiana nella Lettera a una professoressa denunciava che per studiare volentieri nelle nostre scuole “bisognerebbe essere già arrivisti a dodici anni”. Ed era il 1967. Piuttosto il fatto, che è sotto gli occhi di tutti, che un laureato, anzi un dottore di ricerca possono tirare avanti con contratti a termine, borse, assegni di ricerche e supplenze, in una condizione di precarietà che sfiora la miseria, permette oggi di cercare un senso diverso del fare scuola. E non sono del resto i docenti spesso precari fino a quaranta, cinquant’anni ed oltre? Quale affermazione sociale possono vantare i docenti stessi?

Se non è un modo per trovare lavoro, cos’è – cosa deve essere – la scuola? “Un luogo di evoluzione culturale e umana”, scrive Gramellini. Una belle definizione, ma non priva di problemi. Che cos’è esattamente l’evoluzione culturale e umana? Cos’è la cultura? Quale cultura? Sono le questioni con le quali ha a che fare quella disciplina infelice che è la pedagogia. Che mette in evidenza, ad esempio, come non esista la cultura, ma le culture, e come la scuola scelga una cultura esistente e ne faccia la cultura, l’unica sola, l’unica possibile, con un arbitrio che è inevitabilmente violento. E cosa vuol dire evoluzione umana? Chi è umanamente più evoluto? Chi può dirlo? La scuola accarezza l’ideale dell’intellettuale, della persona che ha a che fare con i libri, con molti libri, e che grazie ai libri diventa sempre più raffinata. Don Milani considerava questo un ideale borghese, e dunque individualistico, e contrapponeva ad esso l’umanità intesa come servizio, come partecipazione fattiva alla vita della comunità; ed a questo, più che a formare intellettuali occhialuti, dovrebbe servire la scuola.
Il dibattito, come si dice, è aperto. Una cosa però dovrebbe essere chiara: cosa non è la scuola. Cosa non deve essere.
La scuola come la intendiamo, come la facciamo oggi è nata con la modernità. La giustifica un ragionamento molto semplice e apparentemente molto condivisibile di Comenio, uno dei massimi pedagogisti di ogni tempo. Si diventa esseri umani in senso pieno solo attraverso l’educazione; può accadere, però, che un bambino abbia la sfortuna di avere dei genitori che, per ignoranza o per mancanza di tempo o di disposizione, non sono in grado di dargli un’educazione adeguata; occorre dunque che tutti i bambini, ricchi o poveri, abbiano la possibilità di andare a scuola, dove riceveranno dallo Stato quella educazione che consentirà loro di diventare pienamente umani.

Questo sillogismo così comprensibile, così moderno, ha però un lato oscuro. Se affidiamo allo Stato il compito di formare pienamente gli esseri umani, secondo quella concezione del potere che Foucault chiamerà biopotere, gli diamo anche la possibilità e il diritto di stabilire cosa e come deve essere un essere umano. Quando educhiamo qualcuno, lo facciamo secondo un ideale umano. Ma chi stabilisce questo ideale? Chi stabilisce come deve essere, da adulto, la persona che stiamo educando? Chi stabilisce che dovrà avere, ad esempio, sviluppatissime competenze intellettuali e nessuna competenza manuale o professionale? Lo stabilisce il potere. Lo stabilisce lo Stato.
Lo Stato ha il potere, attraverso la scuola, di stabilire come dev’essere un essere umano. Ha il potere di progettarlo secondo questo ideale. E, soprattutto, ha il potere di stabilire, di certificare addirittura il grado di umanità raggiunto con un sistema di riconoscimento sociale: i diplomi. La scuola si presenta esattamente come una chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza. Chi la percorre fino in fondo, chi ottiene la laurea, ha realizzato pienamente la sua umanità, chi invece è uscito dal sistema prima del tempo, o ne è stato espulso, è un essere umano parzialmente realizzato. E’ uno che si e perso. E’ un dannato. Extra Scholam nulla salus.

È questa religione della scuola l’implicito del ragionamento di Gramellini. Un ragazzo si afferma professionalmente indipendentemente dalla scuola. E questa è una offesa alla istituzione, vuol dire che qualcuno può salvarsi anche al di fuori della chiesa-scuola. Ma, avverte Gramellini, è una salvezza solo fittizia. Arrivano i soldi, ma non arriva l’umanità: il calciatore, se non colmerà la lacuna, resterà a vita iscritto al club degli ignoranti. E questo per essersi sottratto, sostanzialmente, ad un rituale vuoto: perché possiamo immaginare cosa sarebbe stato l’esame di Stato di un calciatore famoso, che per ovvie ragioni ha avuto ben poca possibilità di studiare, in un istituto paritario, con tanto di giornalisti e fotografi.
Il protagonista del romanzo di Ottieri è un uomo che si trova a svolgere un lavoro delicato. E’ stato mandato a fare la selezione del personale per assumere operai in una fabbrica. La disoccupazione è tanta, le domande sono migliaia, i posti disponibili poche centinaia. E l’uomo ascolta e seleziona. Arriva un giorno questo Donnarumma. Si presenta e dice che vuole lavorare. Come tutti. L’uomo gli chiede se ha fatto domanda. E Donnarumma: “Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io no debbo fare nessuna domanda. Qui si viene per faticare, non per scrivere”. Anche quest’altro Donnarumma avrebbe suscitato l’indignazione di Gramellini, se negli anni Cinquanta ci fosse stato un Gramellini. Lo avrebbe iscritto d’ufficio al club dei poveri ignoranti, come oggi ha iscritto il nuovo Donnarumma, più fortunato, al club dei ricchi ignoranti.

La scuola ha una funzione non diversa da quella del selezionatore di Ottieri. Lì la scelta è tra chi lavorerà in fabbrica e chi no, che in una città con enorme disoccupazione significa, sostanzialmente, tra chi si salverà e chi no. La selezione che opera la scuola, o che pretende di operare, è tra chi è entrato a pieno diritti nella corrente della comune umanità e chi ne è rimasto escluso. “Non abbiamo potuto salvarlo”, dirà sconsolato il docente commentando la bocciatura di uno studente. Salvarlo. Come se quell’atto significasse una caduta in qualche inferno. Come se fuori da scuola non ci fosse nessuna possibilità di esperienza, di informazione, di conoscenza, di crescita intellettuale ed umana. Come se l’unico modo di diventare uomini e donne fosse, davvero, star seduti in un banco ad aspettare che suoni la campanella.

TAG: Donnarumma, scuola
CAT: scuola

3 Commenti

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  1. sean-visinoni 7 anni fa

    Una lettura molto lucida. Complimenti.

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  2. eza 7 anni fa

    Mi trovo perfettamente d’accordo con quanto scritto proprio perché sono un insegnante e queste riflessioni descrivono bene i problemi irrisolti della scuola.

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  3. latomm 7 anni fa

    Mi sembra che in tutto questo discutere sull’esame mancato di Dinnarumma si faccia confusione tra scuola come educazione e come diplomificio. Non credo che la scuola e l’educazione siano da condannare tout court. Esse sono il mezzo indispensabile per la formazione di esseri umani capaci di vivere in comunità. Non il solo mezzo certo, ma uno necessario. Quello che andrebbe invece rivisto è il modo in cui la scuola opera. Ma non perché richiede lavoro, applicazione e disciplina. Ma perché le richiede male. La scuola non è un’invenzione recente – recente è la sua estensione – ma essa fu inventata e elaborata dal popolo ebraico nel primo secolo d.C. (I pochi eletti. Il ruolo dell’istruzione nella storia degli ebrei, 70-1492 di Maristella Botticini e Zvi Eckstein, 20 ott. 2016) Essa fu concepita da allora come una palestra di discussione e interpretazione della Tora ovvero un testo di codici morali e religiosi ma anche di norme giuridici e istruzioni professionali. Discussione e interpretazione. Significa sviluppo dello spirito critico ma con la serietà di un metodo  di analisi, basato su realtà controllabili attraverso la ricerca. Sull’importanza del ‘metodo’ e della ‘ricerca’ parla il Il Sole 24 ORE con l’articolo di Marco Ciardi, Più scienza col fantasy. Quanto alla disciplina considerata solo come costrizione e limite allo sviluppo della libertà, penso che abbia anche un’altra possibile lettura. Senza la disciplina non si ottiene l’autocontrollo, qualità necessaria per la vita in comunità. In Francia, dove vivo, la si insegna ovunque insieme alla disponibilità, chiamata fraternità. E, vedi caso, in un paese con un tasso di nascite molto più alto del nostro, i bambini si vedono ma non si sentono, mentre quelli che schiamazzano ovunque senza controllo sono gli italiani (oltre a quelli dell’Europa dell’Est).

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