L’ideologico entusiasmo per la scuola in presenza

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6 Dicembre 2020

Sulle pagine del “Corriere della Sera”, Galli della Loggia ha scritto una severa tirata contro la DAD, intitolando il suo articolo: L’incomprensibile entusiasmo per la “DAD”. Ha inserito in queste righe tutte le banalità che di solito chi non s’intende di scuola accumula in poche parole: la didattica digitale non è scuola, esclude le fasce più povere e meridionali della popolazione. Sì, “meridionali”, aggettivo abbinato a “povere”: accostare i due concetti nasce dal pregiudizio secondo cui al Sud la civiltà ancora non arriva, e quindi il Sud non è Italia, o forse dall’amara constatazione – e se è così, il concetto andrebbe spiegato meglio – che le risorse economiche stanziate per il Sud inspiegabilmente vengono dirottate al Nord. Ma non è questo il punto focale della questione sollevata da Galli della Loggia, sebbene meriti un approfondimento storico-politico e una riflessione su un problema forse ancora irrisolto che a suo tempo sollevò Giustino Fortunato in una lettera dl 1899 a Pasquale Villari: lo Stato profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali. Non è il caso, qui e ora, di sollevare una polemica degna più del neomeridionalismo di Pino Aprile che non di un’analisi sulla scuola, vero oggetto dell’articolo di Galli della Loggia.

Chi nutrirebbe entusiasmo per la DAD? Gli studenti? Certamente no: lamentano enormi difficoltà e spesso – magistralmente mobilitati dai sostenitori della scuola in presenza- manifestano pubblicamente il loro disagio per la didattica digitale. I docenti? Certamente no: sentirsi trasformati in videoterminalisti è frustrante per chi ha sempre creduto nel valore dell’educazione che passa attraverso la relazione. Le famiglie? Certamente no: anzi, i genitori sono disperati perché con la DAD viene meno la soluzione alle loro vite lavorative e perdono, così, il parcheggio sicuro e protetto per i loro pargoli. La Ministra dell’Istruzione, Azzolina? Certamente no: lo slogan che instacabilmente ripete è “riapriamo le scuole”, anche se poi non fa nulla per renderle davvero sicure ed evitare che si trasformino in incubatori di contagi, considerate le aule anguste e affollate, esattamente le stesse della scuola precovid, in cui 25 e più alunni, l’insegnante e il docente di sostegno respirano, saturando l’aria di droplet. E le sedie con le rotelle non cambiano questa amara realtà. Nutrono entusiasmo per la DAD i politici in generale? Certamente no: i politici di ogni governo non hanno mai avuto davvero interesse per la scuola né in presenza né a distanza (ne parlano perché come si fa a non dire un’ovvietà su un argomento di cui tutti, ma proprio tutti, si sentono esperti in diritto di emettere sentenze?): in realtà i politici sono concentrati sul MES, sui “ristori”, sui “bonus”.

Dunque, dov’è questo entusiasmo? E come fa ad essere incomprensibile una cosa che non c’è?

Giocare con l’argomento fantoccio è una tecnica da “bravi” retori: sposto l’attenzione su un argomento esagerandone la portata, travisandolo o semplicemente inventandone completamente il contenuto, così mi risulta molto più facile presentare la mia posizione come ragionevole. Questo tipo di disonestà serve, però, a polverizzare un dibattito leale e costruttivo.

La DAD non piace a nessuno. Tuttavia a chi strumentalmente fa finta di non accorgersene, glissando sulla gravità del problema, corre l’obbligo di ricordare che è in atto una pandemia grave: malati e morti lo testimoniano. Oppure, forse, bisogna cominciare a pensare che quanti proclamano la validità della sola scuola in presenza vogliono in effetti negare la portata dell’infezione da Covid-19, slittando verso forme di malcelato negazionismo volto a eludere i reali e non risolti (anzi, mai seriamente affrontati) problemi dei contagi a scuola: mancanza di tracciamenti e test, sovraffollamento delle aule, insufficienza di spazi adeguati ad assicurare un distanziamento efficace, penuria di personale docente e ATA, inesistenza di sistemi di riciclo e depurazione dell’aria. Gli arredi scolastici che la ministra ha pensato di rinnovare considerandoli la vera priorità in piena pandemia, erano l’unica cosa che andava bene, nonostante i chewingum attaccati sotto i banchi da generazioni: non erano i banchi a impedire la didattica. Non vale la pena, in questa sede, sollevare un inquietante quesito: perché la ministra ha pensato a rinnovare gli arredi e non, invece, a ristrutturare edifici che crollano? Chi scrive ha lavorato in istituti scolastici costruiti durante il fascismo con fondamenta “biscottate” e friabili a causa di continui allagamenti, fogne che rigettano liquidi maleodoranti e miasmi dai tubi dei gabinetti, cornicioni che cadono, intonaci che si staccano e pavimenti rigonfi, finestre con vetri rotti o proprio senza vetri, postazioni alla reception senza sorveglianza per mancanza di collaboratori scolastici e conseguente ingresso arbitrario di varia umanità estranea alla scuola: in questi casi gli arredi scolastici non sono la priorità.

Dunque l’argomento fantoccio dell’incomprensibile entusiasmo per la “DAD”, detto anche “dell’uomo di paglia”, facilmente si disfa: la DAD non piace proprio a nessuno, ma ora, nell’emergenza serve, è l’unico modo per conciliare due diritti irrinunciabili, quello alla salute e quello all’istruzione. E a nulla vale lamentare il fatto che non tutti sono raggiunti dal digitale: certo il ministero poteva lavorare meglio e di più per potenziare connessioni e reti, ma forse Galli della Loggia ignora che le scuole hanno acquistato dispositivi, hotspot, schede sim per coloro che sono in difficoltà.

Il tecnoentusiasmo non ci riguarda: siamo un Paese ancora profondamente gentiliano – con tutte le conseguenze che questa struttura di base comporta – siamo diffidenti e timorosi verso una tecnocrazia che rischia di impossessarsi della nostra vita. Non sarà una virtù, ma è questa resistenza che ci rende capaci di vedere ciò davvero si nasconde dietro i panegirici che esaltano la “scuola in presenza”: quanti celebrano retoricamente la riapertura delle scuole – di fatto mai chiuse, perché anche a distanza la scuola non ha mai smesso per un solo attimo di funzionare – non lo fanno certamente per motivi culturali, ma solo per salvaguardare quel “capitale umano” che dalla presunta chiusura ritengono possa essere intaccato, per tutelare le aziende e le fabbriche che perderebbero lavoratori, impegnati, in quanto genitori, ad aiutare i loro piccoli nell’apprendimento a distanza: si conferma così la deriva in atto da tempo, la subordinazione della scuola alla dimensione economica neoliberistica che vuole tutti gli esseri umani ridotti a merce, soggetti sfruttabili solo per la produzione. Basta leggere i nomi dei firmatari dell’appello promosso dall’associazione CONDORCET per salvare “il futuro dei nostri studenti”: in buona parte economisti preoccupati non certo per la vita delle persone, ma da eventuali perdite di “capitale umano” che da presupposti – ma tutti da dimostrare – rallentamenti didattici potrebbero essere determinati. Il capitale umano: che sia questo l’obiettivo di chi vuole la scuola in presenza lo dichiara apertis verbis Ferruccio de Bortoli: “le proposte consistono nell’occuparci della formazione del capitale umano”, le proposte utili, quelle che subordinano la scuola al mercato del lavoro, in un momento storico in cui parlare di “lavoro” è davvero “lunare”, “stellare”, per usare gli aggettivi che i nostri politici hanno recentemente riscoperto.

Insomma, della scuola – in presenza o a distanza, poco conta, al punto in cui siamo – davvero non importa a nessuno. Quello che interessa davvero, da anni ormai, è come rendere l’apprendimento un investimento: e se il digitale e l’ingresso dei colossi informatici nella realtà scolastica rispondono a questo scopo allora la didattica digitale – oggi tanto demonizzata – diventa utile e va inglobata nella prassi scolastica ordinaria. E anche quando si tornerà alla scuola in presenza, bisognerà integrarla forzatamente – anche se nessuno ne sentirà il bisogno – nelle lezioni quotidiane.  Ecco che allora magicamente diventerà un ottimo sistema didattico: ritengo che la didattica digitale rappresenti oggi un’occasione e una sfida per ripensare la scuola del futuro (Azzolina): insomma, il digitale in presenza, sì; il digitale a distanza (quando cioè è veramente utile per arginare i contagi), no.

I docenti non sono tecnoentusiasti e loro malgrado hanno imparato a usare il digitale, hanno spirito di adattamento, quello che ad ogni essere vivente consente la sopravvivenza, quello che va insegnato ai giovani: la DAD è un sistema emergenziale, e tale deve restare. E se il covid è un’emergenza la DAD è una risposta temporanea e utile.

Chi vuole la scuola in presenza se ne infischia dei contagi, degli anziani che gli studenti finiranno per infettare inevitabilmente; ma, si sa, la struggle for life applicata al mercato, dei fragili non sa che farsene. Il messaggio è “dei vecchi fregatene, non servono”, anche se vengono poi ipocritamente tirati in ballo come primi destinatari per vaccini: allora sì gli anziani diventano soggetti da tutelare, perché gravitano intorno a un redditizio spazio economico costituito dalle RSA e ne sono la fonte primaria di profitto.

I giovani, i nostri figli e i nostri nipoti non riceveranno educazione, poiché per educare occorrono princìpi primi che siano tali per tutti. (…) I “padroni dell’umanità” sono i grandi idioti, che non si accorgono che anche il denaro muore. E così stanno accumulando le ossa della ricchezza e sono avvolti dalla puzza di morte. Dalla morte che credono sia la vita. (V. Andreoli,  Homo stupidus stupidus. L’agonia di una civiltà)

TAG: coronavirus, politica, scuola
CAT: scuola

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