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25 aprile, una festa da immaginare perchè duri e resista

Italia

A fare l’amore per la prima volta nell’Italia liberata. Quel 25 aprile 1945

di Fabio Cavallari

Il 25 aprile è un rito. E io non posso che riproporre il racconto di mio padre, Andrea Cavallari, classe 1921. Me lo raccontò anni fa. Per me, questa è la manifestazione più vera della liberazione.
E ogni anno, la ripropongo a me stesso. E a chi mi ascolta.
Un rito.

25 Aprile 2025

Eravamo su una collina quel giorno. Non potevamo sposarci in sicurezza. Il rischio era mettere in pericolo altri, ma in me si muoveva qualcosa di istintivo, di violento. Volevo andare. Scendere. Dare senso a quell’agitazione che mi turbava il corpo. C’era una casa di contadini a pochi chilometri. La si poteva vedere tra le piante, oltre la boscaglia. Conoscevo bene la strada. Vi ero stato più volte in quei mesi. Vino di mele e acqua pulita, il loro contributo a sostegno delle nostre giovani paure. Avevano una radio nel casolare. E io volevo andare. Ascoltare qualche notizia. Capire cosa stava accadendo. I compagni cercavano di dissuadermi, di trattenermi. Per qualche minuto mi sono sentito in difetto, sbagliato, egoista. Ma io volevo disobbedire, dovevo disobbedire. Non bisognerebbe mai contraddire l’istinto. Il mio mi chiedeva di andare. Così ho atteso che ognuno fosse impegnato in qualcosa e mi sono messo in cammino. Erano le 10.30 di una mattina di aprile. Il 25 aprile. Avevo compiuto ventiquattro anni, otto giorni prima. Giunto davanti alla porta ho iniziato a bussare piano, poi più forte sino a quando non si sono accorti di me. Ho rischiato di spaventarli. Ad aprirmi si è fatta innanzi a me una donna, la figlia del fattore. Era bella. Aveva i capelli raccolti sulla nuca ed un sorriso semplice, la voce fioca, gli occhi della gioventù. Sapevo di poter contare su di me, sul mio ascendente. Le ho chiesto se potessi ascoltare la radio. Mi ha guardato stranita, ma ha acconsentito pregandomi solo di fermarmi lo stretto necessario. Poi mi ha lasciato solo nella loro cucina. Qualche secondo per trovare la stazione. Gracchiava, il segnale era disturbato ma ad un certo punto la voce si è fatta limpida. Parlavano di noi: “Ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire! ” Era la voce di Sandro Pertini, allora alla testa del comitato partigiano che stava liberando Milano, proclamando lo sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista. Era la fine. L’inizio della liberazione. Non potevo credere a ciò che stavo ascoltando. Sono rimasto immobile. Non riuscivo più a parlare. Ho iniziato a ridere, a ridere sempre più forte, e poi a piangere, di un pianto senza fine. I pugni sul tavolo. Uno, due, tre volte. E poi in piedi a fatica sulle gambe tremanti. I contadini che erano in stalla sono corsi in casa spaventati. Non capivano cosa mi stesse accadendo. Mi hanno pregato di stare zitto, di calmarmi. Di dare una risposta alla mia esuberanza, ma io avevo un nodo in gola che non mi permetteva di dire nulla. Ho dovuto attendere qualche minuto con il respiro sospeso. E poi tutto d’un fiato: “i partigiani sono entrati a Milano. La città è liberata. I tedeschi stanno fuggendo in ritirata”. Non dissero una parola. La mia voce rimbombava come un tuono in quella casa contadina. Ho preso la ragazza per un braccio, l’ho guardata fissa negli occhi e l’ho baciata davanti ai suoi genitori. Loro immobili. Lei imbarazzata ma complice. Poi sono uscito all’aperto e ho iniziato a correre gridando verso i mei compagni. “Scendete, scendete, scendete!”. Mi sono tolto la camicia e ho iniziato a sventolarla come una bandiera per farmi notare. Ad un certo punto da lontano mi hanno visto. Correvo e urlavo, correvo e urlavo come un pazzo. A petto nudo con il pugno alzato. Preoccupati per il mio comportamento sono scesi di corsa, allarmati. Mi hanno braccato in quattro, scuotendomi per farmi smettere. Mi hanno gettato a terra. Mani sulla bocca. Ho faticato a calmarmi, a riprendere il respiro, a raccontare cosa avevo sentito. Erano interdetti. Non capivano se avessi perso la testa o bevuto. Siamo rientrati in casa e riacceso la radio. Era l’insurrezione. Fascisti e tedeschi erano in fuga. La città era nostra! Non ero pazzo. Un urlo si è levato in cielo. E poi abbiamo iniziato tutti a ballare, a cantare e a bere vino. Quella notte ho fatto l’amore con quella giovane contadina nel pagliaio. Era la prima volta. La prima volta nell’Italia liberata.

 

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