Teatro
Disobbedire con le emozioni: a Siracusa l’Elettra di Roberto Andò
Intervista al regista siciliano sullo spettacolo sofocleo che sta realizzando per la LX stagione dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico.
Siracusa. È stato molto lungo il percorso che ha portato Roberto Andò, oggi forse al culmine della sua maturità artistica, a dirigere una tragedia di Sofocle nel Teatro Greco di Siracusa. Dalla direzione del bellissimo Ortigia Festival nei primi anni del 2000, alla direzione dell’Inda nel 2017, fino al fascino semplicissimo e vertiginoso di “Conversazione su Tiresia” diretto appunto nel Teatro Greco di Siracusa nel 2018 per accogliere la potente forza affabulatoria di Andrea Camilleri. Dal prossimo 9 maggio e fino al 6 giungo sarà in scena, a giorni alterni, con l’Elettra di Sofocle, e non è certo un’avventura senza rischi: tra tutte le tragedie sofoclee Elettra è forse quella in cui il dissidio tragico è maggiormente introflesso nel corpo, nella natura e nella sostanza dell’indomita figlia di Agamennone e Clitemnestra. Andò per affrontare questa avventura ha messo in campo tutta la solidità della sua equipe (da Daniela Cernigliaro per i costumi, a Gianni Carluccio per il disegno luci e a Hubert Westkemper per il suono) e gli apporti di Luna Cenere per i movimenti coreografici e soprattutto di Giovanni Sollima per le musiche. Inoltre, per incarnare la grande e tormentata eroina sofoclea, ha giustamente scelto una straordinaria e prestigiosissima attrice, Sonia Bergamasco. Eppure, come sa bene chi conosce le dinamiche e le vicende artistiche delle rappresentazioni classiche siracusane non ci sono mezzi tecnici, non ci sono attori e attrici, non ci sono scenografie, musiche, danze, non ci sono invenzioni di alcun tipo che possano superare la mancanza o la fragilità di una idea registica vera, meditata e intellettualmente fondata. Andò lo sa bene ed è su questo punto soprattutto che abbiamo provato a interloquire con lui.
Come si confronta con la committenza Inda? È una sfida feconda lavorare su Elettra di Sofocle?
«È stata una scelta felice. Ho accettato con entusiasmo questa proposta perché è una tragedia che amo molto. Per altro, diversi anni fa c’era Elvira Sellerio nel direttivo dell’Inda e mi fu proposta esattamente questa tragedia. Allora non potei accettare e adesso al contrario sono stato felice di accettare e di lavorare a questo testo».
Quale emozione, interesse, spinta creativa, le suscita lo spazio enorme del teatro greco siracusano»?
«Si tratta di un confronto affascinante: i teatri greci, e quello di Siracusa per primo, sono spazi affascinanti, spazi in cui veramente appare chiaro che lì è cominciato tutto. Ad esempio il fatto di cominciare con la luce naturale è un dato che mi suscita una grande eccitazione. Mi era già successo a Pompei e qui a Siracusa con il Tiresia, anche se si trattava di uno spettacolo profondamente diverso».
Quale è stata la presenza o l’importanza della drammaturgia classica nella sua formazione intellettuale?
«Sono fatti cruciali nella nostra formazione: ci muoviamo sempre intorno a questo insieme di miti e pensieri. Bertrand Russel diceva che tutta la filosofia occidentale altro non è, in fondo, che una postilla a Platone. Così penso che in fondo tutto il teatro occidentale altro non sia che una postilla ai greci, al teatro dei greci. Questa mia Elettra è antica e profondamente contemporanea».
Chi è l’Elettra che ha incontrato rileggendo il testo di Sofocle
«Intanto si tratta di una tragedia abbastanza eccentrica rispetto al lavoro di Sofocle. Si colloca infatti nella parte finale della sua produzione, vicina all’Edipo a Colono. È eccentrica perché nella trama del lavoro di Sofocle rispetto a questo mito, e diversamente da quanto fanno Eschilo ed Euripide, al centro è posto il carattere di Elettra, l’insieme delle sue emozioni. Elettra sta al centro e tutti gli altri sono funzionali al suo essere. Elettra è una disobbediente attraverso le emozioni: non c’è alcun nodo tragico, Elettra deve vendicarsi e non si pone il problema della giustizia. Un calvario emotivo che si estende dall’alba al tramonto e la avvicina a noi. E noi contemporanei siamo veramente accanto a Elettra. Non è un caso che Freud l’abbia ritrovata nella sua elaborazione e ne abbia fatto uno dei suoi complessi. Ancora possiamo dire che Elettra è risonante perché questo tripudio emotivo – come dice che l’ha studiata moltissimo – ne fa un simbolo della condizione umana e soprattutto della condizione femminile. Elettra è contemporanea perché sostanzialmente dice: io sono un caso senza soluzione. Tra l’altro, quasi a coronamento di ciò, alla fine, dopo la vendetta, è presa non da un senso di pienezza eroica, ma da un senso di svuotamento assoluto che la atterrisce ulteriormente».
Che ruolo svolge il coro (le donne di Micene) nel tuo disegno registico?
«Ad aver voce sono le aristocratiche amiche di Elettra. Parlano prima per mitigarne la furia e in qualche modo per farla ragionare. Poi, in definitiva, cominciano a prendere parte per lei. Ed ancora c’è un popolo che filtra le grandi questioni della tragedia: in questo caso il coro è molto importante perché, incarnato in quelle tre donne, rispecchia le grandi questioni del rapporto con i morti, della possibile conquista di un’armonia (che in questo però caso non c’è perché Elettra è mossa da un dike furiosa) e della vendetta che alla fine si rivela insufficiente per recuperare l’armonia perduta. Si conferma che questa è una tragedia di passaggio tra il mondo di Euripide, in cui la questione della vendetta è risolta in modo filosofico, e il mondo di prima, quello di Eschilo».
Come è stato il rapporto con la traduzione in italiano del testo sofocleo e con Giorgio Ieranò che l’ha realizzata?
«Si tratta di una traduzione che considero strepitosa e Ieranò è venuto alle prime prove per discutere di essa con me e con gli attori. Una collaborazione bellissima e molto proficua».
Crediti fotografici: Lia Pasqualino e Franca Centaro.
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