Italia

Martina non è morta per amore

Aveva detto basta. È stata uccisa per questo. Un gesto feroce che non nasce dal nulla, ma da una cultura che non sa più educare alla perdita, né proteggere chi sceglie la libertà.

29 Maggio 2025

Il gesto di Alessio Tucci non è il frutto di una follia improvvisa. È il punto terminale di un filo marcio che attraversa l’educazione sentimentale dei nostri adolescenti, svuotata di simboli, senza padri né parole. L’“ex fidanzato” non è solo un ragazzo che ha perso la testa, ma è un soggetto smarrito in un mondo dove l’altro non è più riconosciuto come essere da amare o da lasciar andare, ma come possesso da trattenere o annientare.

Lì, in quella pietra, non c’è solo violenza. C’è la proiezione di un rifiuto che non può essere integrato. L’altro – Martina – non viene più visto come persona, ma come specchio di un’identità narcisistica che crolla nel momento in cui viene abbandonata. Alessio colpisce Martina perché non regge il peso dell’abbandono. E non ha nessuno che gli abbia insegnato che si può soffrire senza distruggere.

La colpa è anche nostra. Di un tempo che non nomina la morte, che banalizza l’amore, che disprezza il limite e rifiuta la frustrazione. Di una cultura che ha disattivato le leggi simboliche, lasciando i più giovani in balia del godimento immediato o della vendetta cieca.

Il femminicidio di Martina è l’esito di una struttura sociale che abdica ogni giorno al proprio compito educativo. Non è un “caso isolato”. È un fatto politico. In quanto fatto del corpo nella polis. Un corpo straziato, dimenticato sotto detriti, che testimonia il fallimento di una società incapace di proteggere i suoi figli. Di riconoscere che l’amore, quando diventa possesso, è già potenzialmente crimine.

I Comuni si riempiono la bocca di “diritti dei giovani”, ma lasciano le periferie – come Afragola – al deserto educativo, alle scuole che sopravvivono per inerzia, alla totale assenza di percorsi affettivi, relazionali, comunitari. Il femminicidio non nasce il giorno dell’omicidio. Nasce in classe, quando si normalizzano gli schiaffi. Nasce nelle case, quando i genitori sono soli, stanchi o distratti. Nasce nella rete, dove l’identità è uno spettacolo e l’altro un bersaglio.

E non basta dire “cieca violenza”. È troppo comodo. Questa è una violenza lucida, strutturata, incistata in una cultura che educa gli uomini a non piangere, a non perdere, a non accettare. A colpire per riprendersi il controllo. È qui che serve lo Stato. Non a fare retorica il giorno dopo, ma a costruire relazioni e presidi simbolici nei giorni prima.

Martina è stata uccisa perché aveva detto basta. Aveva avuto il coraggio di interrompere un legame malato. E questo, per alcuni, è insopportabile.

E allora: possiamo ancora fingere che basti il cordoglio? Che le panchine rosse siano un gesto sufficiente? Chi prende in carico, oggi, il dolore delle madri? Chi educa alla possibilità di amare senza uccidere? O ci limiteremo, anche stavolta, a “commuoverci”, senza muoverci?

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