Senza futuro?
La sfida è ritrovare un’idea di futuro, ha scritto Ivan Krastev. E’ un buona questione,penso.
“Se finora avevano ostinatamente sottratto la propria sofferenza alla tragedia collettiva, adesso accettavano di confonderle. Privi di memoria e di speranza, si installavano nel presente. In realtà tutto per loro diventava presente. Sì, bisognava proprio dirlo, la peste, aveva tolto a tutti la diposizione all’amore e all’amicizia. Perché l’amore richiede un po’ di futuro, e per noi ormai c’erano solo istanti”. Così Alberto Camus ne La peste [pp. 194-195].
Quanto ci riguarda?
Parecchio, ma non è l’unica cosa.
Misurare l’istante significa anche non riuscire a pensare collettivamente, ovvero smettere di pensarsi come soggetto generale, come attore che ha come obiettivo fare domani, più che agognare per arrivarci.
E questa condizione, forse paradossalmente ci riguarda più ora che non a marzo. Il tema non è come usciremo dalla pandemia, ma quale patto di fiducia siamo disposti a sottoscrivere e dunque a riconoscere legittimità e di azione a chi si trova a decidere oggi di fronte alla seconda ondata. Che cos’è del resto tutto il confronto conflittuale tra Governo e regioni se non una tattica accorta per non trovarsi nella condizione di dover decidere?
A differenza del passato non è un segno di immaturità, è invece la risposta a una condizione collettiva di stato d’animo.
Mi spiego.
Si dice che il problema siano gli errori accumulati, le incertezze dimostrate, la non competenza dei decisori, l’incapacità di scegliere. Può essere certo ciascuno di questi fattori pesa e ha un ruolo, e tuttavia il punto nella seconda ondata non è più questo. Il tema è se si può ancora credere o meno. E il principio su cui misurare la capacità di agire e di risolvere è nel successo del contenimento, Solo che la condizione di riapertura, per quanto condizionata seguita al primo lockdown anziché favorire la prudenza, ha abbassato la paura e innalzato ila rabbia.
Risultato: la rapidità con cui siamo tornati dalle parti del punto di partenza non è l’effetto di misure sbagliate, o di disattenzione o del venir meno della prudenza. Quella semmai è un effetto. Il tema è se valutiamo le misure prese efficaci e la possibilità di misurare sta nel confronto con altri contesti.
Contemporaneamente si potrebbe osservare che la possibilità di uscire dalla condizione di emergenza dovrebbe essere direttamente proporzionale alla capacità di azione condivisa, alla dimensione concorde di atti che superano l’ambito del confine.
Il riversamento sulla sfera del limite della nazione sembra tradurre in geografia il concetto di non contatto. Solo che la condizione pandemica non conosce confini, e dunque qualsiasi cautela si appronti per chiudere, per quanto si innalzino muri, la pandemia si diffonde egualmente. Isolarsi non ci salverà, ma la rabbia ci dice che è la risoluzione più sicura per contrastare l’avanzata del virus.
È anche probabile, che quella rabbia da sbarramento non si limiti al tema della pandemia, ma provi a battere la stessa strada, e dunque a proporre la stessa terapia, di fronte all’innalzarsi del conflitto o del ritorno, in forme sempre più estreme, di episodi di fondamentalismo, quali abbiam visto nelle due settimane in Europa.
In una strana e contorta dialettica quello che viene negato come terreno di applicazione di regole a contrasto nei confronti di Covid-19, ovvero il territorio dell’Europa come unità continentale, può essere che trovi invece una sua pratica nella dimensione della lotta al fondamentalismo. Di nuovo è la rabbia – per non essere in grado di contrastare prima e di far arretrare poi i fenomeni – il vettore che fa decidere l’immagine dello spazio da tutelare e di cui salvaguardare la “salute”.
Non è detto che quello che non consente il senso comune sul piano della terapia nei comportamenti antipandemici, non si realizzi attraverso la retorica dell’assedio dei fondamentalismi.
Si potrebbe dire che in fondo per un’eterogenesi dei fini forse quella condizione ci potrebbe salvare.
Non credo. La terapia collettiva presume un fine di azione volto a salvare quante più persone possibili. In breve, ha un fondamento universalistico. L’altra condizione di spazio salvaguardato, tutelato, e protetto, si fonda sul principio selettivo di “chi vale la pena salvare e tutelare”. L’esatto opposto. La prima pensa futuro a partire da una riforma del presente. La seconda congela il presente.
Ne usciamo? (preferisco non usare il futuro).
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