Costume
Andrà tutto bene
Mi piace fare il barbecue. Mi piace anche la carne alla brace, e le salsicce –da bravo toscano- le faccio cuocere pochissimo. Ma il barbecue mi piace a prescindere; quando ero in America, e stavo per tornare, oltre ad una marea di libri e magliette effettivamente spedite in Italia, mi interessai di spedire oltreoceano anche un barbecue e persino la mia Chrysler sedan di cilindrata 2200 cc. Dovetti alla fine recedere da questi propositi, e l’unico elettrodomestico che ho importato è un tostapane, di quelli che fanno saltare le fette di pane. Però, la passione per il barbecue mi è rimasta; e domenica scorsa, nel pieno di questo stato sospeso in cui viviamo tutti per l’epidemia di coronavirus, ne ho fatto uno sul terrazzo di casa.
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Per fare un buon barbecue ci vogliono le pigne. Alcune secche, altre meno e più resinose per aromatizzare la carne. Io creo un letto di legnetti e pigne secche, su cui adagio un po’ di carbonella. Ora vendono la carbonella argentina: misteri della globalizzazione. Il fuoco si deve accendere con un po’ di carta; rametti molto secchi attizzano la fiamma. Poi si continua con le pigne e un po’ di legna. La gratella va messa presto, secondo me. Importante è dare aria e far bruciare bene la legna e le pigne. Sul mio terrazzo è quasi una sfida: c’è un fazzoletto di spazio utile tra la lavatrice e una cassa di legno che si usa come deposito per la verdura. La fiamma non deve essere troppo alta, perché sopra c’è la tenda. Ma stando attenti ci si riesce. Domenica ero tutto felice. Invero intaccavo la mia riserva di pigne, che chissà quando rimpinguerò; ma il barbecue è un evento anche sul terrazzo. Naturalmente ho acceso la radio su Radio Mitology, per rimanere nel mio universo musicale anni ‘70 e ‘80. C’era un programma favoloso, intervallato da appelli a rimanere in casa e tenere accesa la radio. Lo speaker concludeva ogni appello con: “andrà tutto bene”. Oggigiorno è un hastag di successo. Io, in aggiunta a rimanere in casa e accendere la radio, cuocevo la carne: un paio di bistecche, alcune salsicce di cinta, rostinciana. C’era un bel sole, poco vento, odore di pigne. Andava tutto bene.
Ad un certo punto, seguendo la programmazione fatta di chissà quale dj, la radio ha cominciato a trasmettere le prime note di Vita Spericolata. Mi sono fermato ad ascoltare guardando cuocere la carne. Mi facevo scendere la musica addosso, non ho altro termine per definire la sensazione. Una canzone bellissima.
Era il 1983, e ricordo bene Vasco a Sanremo; era mezzo fatto o brillo e cantava davanti ad una folla insofferente. Aveva una maglietta blu e un giaccone osceno. L’immagine è indelebile nella mia memoria, ma per chi vuole il filmato c’è pure su youtube. Mentre la ascoltavo ho pensato a questa canzone: qualcuno ha detto che è l’inno della mia generazione, di quelli nati tra il ’65 e l’80; i quaranta-cinquantenni. Penso sia vero. Voglio una vita…vedrai che vita, vedrai! Eh, davvero: vedrai.
Sulla mia generazione c’è poco da dire. Si sono già spesi fiumi di parole, spesso con l’effetto di una noia mortale. Ora è arrivato il coronavirus. Volevamo una vita di quelle che non dormi mai, un modo per uscire dall’anonimato; e siamo la generazione che, in un modo o nell’altro, è più coinvolta in questa situazione surreale, da guerra silenziosa.
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Non so se sia suggestione o realtà, ma quando faccio quei pochi passi che mi allontanano da casa per andare a lavorare o a fare la spesa, vedo in giro solo miei coetanei. Penso sia giusto così. Alla televisione fanno vedere ragazzi giovani che fanno i dottori, gli infermieri; stasera una ragazza che lavora a Seul descriveva il modello coreano di gestione dell’epidemia. Li conosco questi ragazzi, insegno loro cose che penso siano bellissime, ormai solo in forma telematica. Sono in genere molto bravi, fragili, onesti in modo commovente. Il futuro è loro ed è bene. Ne vorrei e ne dovrei parlare; e magari a breve lo farò. Ma è la mia generazione che forma l’architrave del sistema, adesso; e che è di fronte alla prova non scontata della resilienza. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso. Forse l’ultima chiamata per noi.
Ci sono cose della mia generazione che non si dicono mai. Per esempio, che molti di noi hanno studiato come dei matti. Non so se la Scuola e l’Università dei tempi dei miei genitori fosse molto più dura di quella che ho fatto io. Mi sembra probabile. Ma la passione per lo studio che ho visto in molti miei coetanei è un caso a sé. Per avere la nostra vita esagerata, in un mondo fatto mezzo di consumismo e mezzo di solidarietà sociale, avevamo capito che ci si doveva impegnare e conoscere; per essere uomini.
Quando finirà questo incubo, e saremo di nuovo liberi, vorrei che le competenze della mia generazione tornassero ad emergere; che tornassero ad essere un valore, per tutti. Colpa anche nostra che non ci siamo fatti sufficiente valere. Mi è capitato di dirlo a un mio caro amico, via skype. Lui è uno che ha dato molto più di quello che il sistema ha dato a lui. Non parlavamo di questo, però. Ridevamo delle follie antiscientifiche che sentiamo quasi ogni giorno e dei pazzi che hanno scoperto il jogging come reazione nervosa alla clausura. Poi l’ho sentito preoccupato. Ho chiesto se fosse la paura del virus. Mi ha detto no, si era solo un po’ trovato a disagio perché era stato fermato da un vigile mentre prelevava denaro ad un bancomat vicino casa. Ma perché hai bisogno di contanti? ho chiesto. Mi ha risposto: “e se –col carrello pieno- arrivo alla cassa del supermarket, dopo una coda infinita di matti venuti a fare scorte per il bunker, e il bancomat non funzionasse?” Stupito, ho chiesto come gli fosse venuta in mente questa paranoia. Mi ha risposto: “Guarda che se ora si rompe una fibra ottica o non va un server ritorniamo all’età della pietra, in questo sistema di merda che abbiamo costruito. Voglio le banconote.” Voglio una vita, la voglio piena di guai.
E poi ci sono i figli. I miei coetanei hanno avuto, se hanno avuto, figli relativamente tardi. Voglio una vita, che se ne frega di tutto, sì: e allora abbiamo atteso, e ora ci ritroviamo a dover spiegare a dei ragazzini esperienze che hanno vissuto i nostri nonni. La situazione è meno romantica e grave di quando mio nonno ascoltava Radio Londra in un sottoscala. Ma è un’esperienza che segnerà. Forse si potrebbe approfittare del tempo immobile per far capire ai ragazzini che se conosci il meccanismo con cui le cose si dipanano, magari anche solo i nomi degli alberi in un bosco o cosa è una dinamica esponenziale, puoi vivere meglio. Che la scuola, finchè dura, è il nostro Roxy Bar, dove ci si trova come le star.
Mio figlio maggiore ha 10 anni, gli stessi che avevo io nel 1983, l’anno di Vita spericolata. Un po’ si annoia, ma da due giorni facciamo la “posta” ad un gatto che gironzola nella stradina sotto il nostro condominio. L’abbiamo battezzato Mezzo Gatto, perché ha le gambe corte. Mezzo Gatto vive nel quartiere una vita da Steve McQueen dei gatti; una vita maleducata fatta di baruffe con altri gatti, e amori parecchio rumorosi. Si aggira sempre molto circospetto, ma è libero. Un piccolo squarcio di normalità, vicino alla siepe di casa. Fossi un topo del mio quartiere, la notte avrei parecchia fifa.
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Prima di dormire, l’altra sera, ho letto un po’ insieme a mio figlio. Leggevamo un libro di Giulio Verne, uno di quei libri sul trionfo della capacità umana di abbattere tutte le barriere. E allora, chissà perché, di quel Sanremo 1983 dei miei dieci anni, mi è tornata in mente anche la canzone vincitrice. Tiziana Rivale cantava “Sarà, sarà quel che sarà. Del nostro amore, che sarà? Prendiamo oggi quel che dà; e quel che avanza per domani, basterà”. Andrà tutto bene.
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