Costume

Femminicidio. La parola che il potere oscura per non parlarne

13 Ottobre 2025

Il femminicidio non è un fatto isolato o frutto di un raptus: è l’esito estremo di un sistema di disuguaglianze e violenze radicate nella cultura patriarcale. Le risposte repressive e securitarie, come il disegno di legge sull’introduzione del reato di femminicidio, non bastano e si limitano a interventi di facciata: servono invece prevenzione, educazione alle relazioni e al rispetto, per scardinare stereotipi e ruoli di genere che alimentano la violenza.

Il libro di Donata Columbro – Perché contare i femminicidi è importante (Feltrinelli) – va esattamente in quest’ultima direzione.

Può essere letto in due modi: come una denuncia di una disattenzione voluta oppure come il segnalatore di un malessere profondo. Credo che al netto del dato di urgenza sia importante non dimenticare la prima, anche perché è il livello primo che il lettore si trova davanti. M asia anche lungimirante chiedersi che cosa stia dietro al secondo tema,ovverodove erisieda l’origine, nel nostro tempo, di quelmalessere profondo. Ci tornerò alla fine.

Il dato di partenza e la prima lettura ruota intorno ai contenuti e a ciò a cui allude il termine «femmicidio», termine che è entrato nel linguaggio pubblico senza più possibilità di relegarlo ai margini

Per Donata Columbro sono almeno tre le cose da mettere a fuoco.

La prima.

La parola femminicidio è entrata nel nostro vocabolario pubblico con molta ritrosia, solo di recente.  Ha una data precisa: 20 novembre 2023. È il giorno in cui Elena Cecchettin, sorella di Giulia,  intervenendo sul “Corriere del Veneto” descrive i termini della questione che ha segnato la morte violenta della sorella:  “omicidio di Stato” e un “delitto di potere” a cui occorre reagire con l’educazione sessuale e affettiva. Ancora non c’è un nome, ma c’è l’oggetto della questione. Quella parola, a dir la verità, ricorda Columbro, fa la sua prima apparizione nel 1977, poi ritorna negli anni’90, poi si riaffaccia intorno al 2006. Ma sempre senza successo. C’è un motivo a mio avviso perché ci sia una resistenza così tenace. Ci tornerò alla fine.

La seconda.

La parola femmicidio rinvia a pratiche che non solo ed esclusivamente l’uccisione violenta di una donna, sono tutte quelle pratiche volte all’erosione di una vita “degna di essere vissuta”, ovvero come “vita marginale”.

Il che implica che “femminicidio” non è solo una pratica di violenza fisica su un corpo, ma la sopraffazione di una persona o una rigida limitazione delle sue possibilità di darsi un futuro Non è questa la condizione con cui descriviamo la libertà di un individuo di decidere della sua vita? Bene discende che bloccare quella possibilità a una donna in nome, sostanzialmente, della divisione di ruoli maschio/femmina rientra nel campo semantico del «femminicidio».

La terza.

Per descrivere un fenomeno, per prenderne le misure, occorre avere a disposizione dei dati. Diversamente il rischio è di continuare a discutere di qualcosa che è impalpabile o che a molti appare come «una fissa».

È questa terza cosa a costituire l’elemento apparentemente più banale eppure è proprio quello che stenta a emergere e su cui opportunamente insiste Donata Columbro.

La sua riflessione inizia da una constatazione: non esiste una neutralità statistica, i numeri cioè sono frutto di una scelta precisa, e quindi, di dinamiche di potere. In un fenomeno complesso come quello dei femminicidi, e della violenza di genere, capire “cosa” contare e “come” classificare i dati è essenziale. In Italia per esempio non esiste un registro ufficiale dei femminicidi, non ci sono cioè dati facilmente consultabili e accessibili a tutti, e le statistiche legate alla violenza degli uomini sulle donne spesso vengono inglobate in misurazioni più generali.

Scrive Donata Columbro:

“il femminicidio non è un fatto privato, ma l’espressione di una violenza e di un abuso di potere sostenuto dalla struttura patriarcale delle istituzioni e di una cultura che vede l’egemonia maschile come normale, statisticamente e socialmente”.

Soprattutto è un fenomeno non solo trasversale ma generale.

Un dato su tutti: se si considera la geografia il femminicidio è distribuito uniformemente, indifferentemente  e indistintamente a Nord come a Sud.

Dunque non sono determinanti le differenze dei processi di modernizzazione o di attaccamento alla tradizione con cui siano stati soliti nell’ultimo secolo descrivere il nord industriale emancipato, moderno update rispetto a un Mezzogiorno descritto come tradizionale, non emancipato comunque legato alle consuetudini e alle gerarchie.

Dai dati per esempio emerge che la violenza non conosce distinzioni geografiche, o di età e classe sociale, e soprattutto che non esiste “normalità” che tenga: a colpire infatti non sono soltanto uomini che vivono in condizioni di degrado o ai margini della società, ma spesso sono proprio i nostri “bravi ragazzi”, i partner (o ex partner), i familiari, le persone più vicine. Infine il femminicidio non è espressione propria di immigrati come in molte occasioni hanno ripetuto membri dell’attuale governo (p.e. il Ministro Valditara).

Ma soprattutto noi oggi ci troviamo a fare i conti con un dato inovviabile. È un è punto su cui Donata Columbro insiste in tutto il suo libro. Non è un rimprovero, è un’affermazione che chiede a chi è potere di abbandonare una postura, di togliersi una maschera e di impegnarsi in un’emergenza strutturale delle forme di violenza praticata di questo nostro tempo.

Se noi parliamo di femmicidio, insiste Columbro, se abbiamo dati, numeri, tabelle non lo si deve a un’agenzia di Stato o al potere pubblico. In gran parte lo si deve a un lavoro dal basso rappresentato dal report elaborato dalla Casa delle Donne per non subire violenza di Bologna, che partendo dai casi di cronaca incrocia numeri, nomi, cognomi e storie. Tutti dati che  altrimenti andrebbero persi.

Non è un rimprovero: è la dimostrazione che non si può continuare a fare il gioco delle tre carte

C’è un secondo elemento che va preso in carica.

Dietro al fenomeno del femminicidio si possono riscontrare elementi tradizionali, ma forse in maniera più profonda agisce un altro fattore con cui a lungo dovremo fare i conti.

Questo fattore non riguarda un dato numerico, ma una disposizione mentale, prima ancora che culturale.

Proviamo a ritornare all’inizio degli anni ’90.

Sono gli anni in cui l’immagine pubblica era la fine della storia, come scriveva Francis Fukuyama, cercando di dare un domani alle macerie del crollo del Muri di Berlino. Sappiamo oggi che quel domani si colora dell’auspicio di «tornare a ieri».

In quel contesto una voce bassa e profonda si stacca dal coro.

È quella di Leonard Cohen. È la fine del 1992 quando esce l’album di Leonard Cohen dal titolo Future. L’attenzione si fissa sul sesto dei nove brani che compongono l’album Democracy, una canzone che rinvia alla visione di futuro che emerge dal sentimento che sta all’origine della rivoluzione americana.

Leonard Cohen scrive Democracy nel 1989.

Ma il brano che la precede, scritto nel 1992 è di fatto la condizione con cui si possa pensare futuro. Il brano si intitola Anthem ed ha un ritornello che non si irrora di futuro, ma della necessità di prendere su di sé le contraddizioni, le violenze, le ferite che fondano il presente pe non per ripiegarsi ma per provare a pensare domani.

«There is a crack in everything /That’s how the light gets in». «C’è una crepa in ogni cosa. È così che entra la luce».

Quel domani nasce solo se si prende con serietà, determinazione e volontà le fratture profonde che danno forma al tempo presente.

In breve se non costruisce un cordone sanitario ma si guarda in faccia la realtà e la violenza della realtà per ciò che indica, e dunque si prova a nominare le cose come sono e a misurarsi con la violenza e le lacerazioni che producono, No se si fanno giri di frasi, perifrasi, ovvero se si adotta una funzione sedativa del linguaggio.

Nominare è la facoltà dell’essere umano di conoscere la realtà e di riconoscere i problemi che la realtà ci pone. Le parole non sono un divertissement per scantonare problemi, ma l’unica possibilità che abbiamo per misurare gli irrisolti.

Le parole. Il segno di dare un contenuto a qualcosa che vediamo, non nominiamo, e così lo accantoniamo. Le parole non un abbellimento, ma una crepa, per iniziare un percorso che costruisce consapevolezza e si prende cura del malessere, che è anche un «malvivere».

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