Relazioni
A che servo? (risposta non richiesta all’editoriale di oggi di D’Avenia sul Corriere della Sera)
Se ti fai le domande sbagliate, l’algoritmo ti loda
C’è un modo di scrivere che profuma di incenso. Di quelle parole educate, giuste, ritagliate a misura di scuola cattolica post-moderna, dove il dramma viene addomesticato con una pennellata di etica gentile. Leggere D’Avenia è come bere tè tiepido in una stanza bianca: ti scalda un po’, ma non ti salva da nulla.
Anche oggi, l’articolo ha il solito incedere elegante e rassicurante. L’IA non ha carne, ma noi sì. L’IA è uno strumento, ma noi siamo la guida. L’IA è procedurale, ma noi siamo imprevedibili. Giusto. Peccato che nessuna di queste affermazioni dica davvero qualcosa.
Perché il problema non è se la macchina ci sostituirà, ma se ci siamo già consegnati, con entusiasmo, ai suoi criteri. E non serve citare Ulisse per salvarsi dal naufragio. Serve chiedersi: quanta parte di noi è già algoritmo?
D’Avenia fa domande all’intelligenza artificiale come se fosse un oracolo da sfidare. Ma sono domande addomesticate. Educate. Da bravo ragazzo di buona volontà. Domande così gentili che l’IA non può che rispondere lodandolo. E allora: “Tu sei insostituibile”, gli dice. E lui trascrive, compiaciuto.
Ma la vera domanda da fare sarebbe un’altra: “Perché i ragazzi ascoltano più te che me?”
E ancora: “Cosa c’è di morto nella mia presenza, se basta un prompt ben scritto per farmi tremare?”
Oppure: “Sei davvero uno strumento, o il mio specchio?”
L’IA non è il problema. È lo specchio in cui scopriamo di non avere più carne da spendere.
La carne, quella vera, è rischio, incoerenza, silenzio. È stare in classe e non sapere da dove cominciare. È guardare un ragazzo che non ti guarda. E restare. D’Avenia, con tutta la sua bravura, sembra aver paura di questo. E allora preferisce la buona notizia: “tu sei ancora importante.” Ma è una carezza. Non una verità. E in fondo, viene da chiedersi: che fine fa un maestro che ha bisogno che sia una macchina a rassicurarlo?
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