
Relazioni
Se i campioni vacillano, Freud, Lacan e Jung non c’entrano
Non è l’inconscio a creare il disagio, ma il bisogno feroce di non deludere mai. E quando un atleta vacilla, il problema non è Freud. È che nessuno gli chiede più se è felice.
È come se il buio fosse nato con l’invenzione della luce, come se la sofferenza psichica fosse nata con Freud, come se il vuoto, l’angoscia, l’assenza di senso fossero stati creati, non rivelati, dall’inconscio. Il 2 luglio, su la Repubblica, Emanuela Audisio ha firmato un articolo potente e lucido, nel quale attraversa le confessioni di Alexander Zverev, Adam Peaty, Ashleigh Barty, Simone Biles, Michael Phelps, Ian Thorpe. Tutti nomi da podio, da record, da Olimpo. Tutti nomi attraversati da una comune constatazione: la vittoria non basta a salvarsi. Anzi, a volte la vittoria è proprio il punto in cui si scopre che si è persa la parte più viva di sé. Tuttavia, l’articolo porta un titolo che rischia di tradirne la sostanza: “Tutta colpa di Freud. Se i campioni dello sport perdono la corazza.” Avrebbe potuto scrivere: “È tutta colpa di Lacan, perché oggi l’Io non basta più e il desiderio non conosce tregua”, oppure: “Il colpevole è Jung, con la sua ossessione per le ombre e l’inconscio collettivo, che rende la fatica del singolo un riflesso dell’intera specie umana”. Ma sarebbe cambiato poco. Perché il punto non è chi viene evocato. È che si preferisce sorridere della teoria, piuttosto che ascoltare la voce di chi sta male. Ora, si può capire l’intento ironico. Ma l’ironia, quando lavora su un corpo ferito, deve essere chirurgica. E questa invece è una formula che, pur cercando il gioco di parole, colpisce male il bersaglio.
Freud non ha tolto corazze a nessuno, ha mostrato che, sotto ogni corazza, può esserci un bambino che trema. Non è colpa della psicoanalisi se Zverev dice: “Mi sento solo, mi sento vuoto”, non è colpa dell’inconscio se Peaty ammette che l’oro non scalda, non è la terapia a creare il disagio, è il disagio a creare la necessità di terapia. Il punto, semmai, è che oggi abbiamo parole, luoghi, strumenti per dire l’indicibile, che la crepa è diventata visibile, che il campione è tornato umano, che la prestazione non protegge dall’assenza di senso, anzi a volte la esaspera. E qui il tema diventa collettivo: non è l’atleta a fallire, è il sistema che non accetta l’umano, il sistema che chiede prestazione continua, branding emotivo, presenza costante, il sistema che allena il corpo ma disconosce la psiche, che misura tutto, tranne il vuoto.
La sofferenza non è una moda, e nemmeno un cedimento, è semmai una forma estrema di lucidità, è l’esplosione di una tensione che non si vede ma consuma, è la risposta di chi si accorge che ha tutto ma non si sente più nessuno. Zverev ha solo fatto ciò che, un tempo, si taceva, ha portato a galla il dolore, ha infranto la sceneggiatura, ha ricordato che la gloria può avere il suono del vuoto, e questo non lo rende fragile, lo rende vero, in un’epoca dove essere veri è più raro che essere primi. Freud, con tutti i suoi limiti, resta uno dei pochi che ha detto: l’uomo non è riducibile al gesto tecnico, c’è un fondo oscuro e abitarlo è parte del viaggio. Lo sport, come la vita, non è una sequenza di risultati, è una lotta interiore, una domanda che si rinnova, un corpo che chiede ascolto, un grido che, finalmente, può essere detto. Ma lo sappiamo, i titolisti devono trovare la formula migliore per fermare il lettore tre minuti a leggere, e Freud, si sa, è sempre un bell’espediente.
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