Relazioni

Il nuovo analfabetismo

Il nuovo classismo è silenzioso, ma feroce: chi non sa parlare il linguaggio della macchina, oggi, non ha diritto alla parola.

16 Giugno 2025

Nel mondo che conta non esistono più solo i ricchi e i poveri. Esistono i saliti e i sommersi. I primi parlano il linguaggio della macchina, sanno interpretare i segni del potere algoritmico, abitano i meccanismi, li piegano. Gli altri, i sommersi, non sanno nemmeno di essere fuori gioco. Vivono in un’ignoranza tecnologica che non è mancanza d’intelligenza, ma d’accesso. Sono esclusi da una lingua che non si impara a scuola, che non si legge nei giornali, che muta ogni mese e ogni mese produce nuovi codici per discriminare, per selezionare, per vincere. È il nuovo classismo. Invisibile, ma feroce.

Freud direbbe che là dove non si nomina, si agisce. E l’algoritmo agisce sempre. Senza annunci, senza dichiarazioni. Decide. Calcola. Assegna. Pensa per te. E mentre tu parli la lingua dell’attesa, lui ti struttura un’esistenza. Se non sai come funziona, sei ridotto a sintomo. Non produci valore, non sei tracciabile, non sei utile. Ti resta la colpa, ma non la domanda. La tua stessa esistenza viene derubricata. Non sei contro, non sei dentro. Sei irrilevante.

La discriminazione oggi è linguistica. Ma non si tratta più di dialetti, idiomi, accenti. È una grammatica profonda, fredda, performativa. Chi la conosce può prevedere, automatizzare, crescere. Chi non la sa resta fuori da tutto: sanità, servizi, cittadinanza, democrazia. Non sei capace di compilare un modulo digitale? Non lavori. Non riesci a configurare una credenziale? Non sei più studente. Non possiedi uno smartphone? Non esisti. Nessuna legge lo ha stabilito, ma tutti si sono già adeguati.

Lacan ci ha insegnato che il soggetto è strutturato dall’Altro. E oggi l’Altro ha il volto di una macchina senza volto. Chi non sa interfacciarsi con lei non ha accesso al desiderio, non ha più nemmeno la possibilità di separarsi. Resta incollato a un bisogno elementare: sopravvivere. Ma la vita, quella vera, quella che si apre al senso, è già passata da un’altra parte.

E non è questione di ribellione. I sommersi non si ribellano. Non sanno di esserlo. Non trovano un nome per la loro esclusione. Non hanno un’analisi, non hanno un manifesto, non hanno voce. Pensano di vivere nel mondo reale, ma abitano una periferia simbolica più dura di ogni miseria economica.

Chi li salverà? Chi romperà questa nuova catena muta? E se nessuno parlasse più per loro, resteremmo tutti inchiodati davanti a uno schermo che ci guarda senza vederci? Il problema non è la tecnologia. È il simbolico che la tecnologia ha smesso di contenere. È l’uomo che ha delegato il proprio desiderio al calcolo, la propria assenza a una notifica. È il godimento di non scegliere, di non sapere. Di essere agiti. Ogni click è una resa, ogni accettazione una cessione di soggettività. L’inconscio si adatta, ma poi scarta. Rifiuta. Torna. E quando torna, non fa prigionieri.

Chi oggi resta fuori, domani sarà più reale di chi è dentro. Perché non ha nulla da difendere, nulla da configurare. Solo un corpo che chiede parola. Ma la parola non arriva. E in quel silenzio assoluto, forse, nasce davvero una nuova possibilità. Una voce che nessun algoritmo ha previsto. Una voce che nessuno aveva considerato. Una voce che non consola.

 

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