Relazioni

Il taglio

Roccella Ionica, 56 corpi perduti nel silenzio. Quando il confine non è una soglia, ma un reale che lacera.

18 Giugno 2025

La notte tra il 16 e il 17 giugno 2024, un barcone partito dalla Turchia naufragò al largo di Roccella Ionica. Sessantasette persone a bordo. Cinquantasei morirono. I soccorsi arrivarono troppo tardi. Nessun clamore. Nessun processo pubblico. Solo un silenzio che pesa ancora oggi. La frontiera è un taglio. Non un concetto. Non una soglia da mappare. Ma un punto di scarto. Il confine è un reale. Irriducibile. È il luogo dove il Nome si spezza. Dove l’Altro non risponde più. Lì cade la garanzia. Lì si scopre che la legge non protegge, ma lascia esposti. Non è una linea, il confine. È una perdita. Una cesura del senso. È il corpo che si muove quando il linguaggio fallisce. Non cerca accoglienza. Non chiede protezione. Il corpo che attraversa non porta teoria. Porta mancanza. Non ha più parole. Ha solo il gesto. Il confine è l’atto. Lì dove il soggetto non può più delegare. Lì dove l’immaginario implode. Chi abita il confine sa che non c’è più riflesso. Solo superficie bruciata. Solo sguardo che non consola. Solo silenzio che non media. La frontiera è la scena in cui cade la finzione dell’identità. Non si sa più chi si è. Non si sa più da che parte si sta. Si perde la patria. Si perde il nome. Si perde il volto che ci era stato dato. Ma è lì, in quella nudità, che può emergere il soggetto. Non c’è salvazione. C’è esposizione. Non c’è accompagnamento. C’è desiderio. Non il desiderio per l’altro. Ma desiderio attraverso l’altro. Non per aiutarlo. Ma per lasciarsi toccare. Perché voltarsi significherebbe perdere l’incontro con la propria verità. Chi si muove ai margini conosce la lingua che il centro ha represso. Una lingua fatta di rotture. Di balbettii. Di sintomi. Parole che non vogliono significare, ma bucare. Che non spiegano, ma incidono. I centri parlano di sviluppo. I bordi dicono che nulla si compie. Che ogni costruzione vacilla. Che ogni identità è un’impalcatura provvisoria. Eppure è lì che può ancora accadere qualcosa. Non l’incontro tra differenze. Ma l’impossibilità di ridurre l’altro a figura. Chi non si protegge può ancora generare. Non perché buono. Non perché forte. Ma perché mancante. E solo chi riconosce la propria mancanza può non cedere al godimento della salvezza. Il confine non è la fine. È il punto cieco. Lì dove l’ordine simbolico fallisce, ma qualcosa insiste. Un resto. Un respiro. Un volto. Non rappresentabile. Non addomesticabile. Ma presente. Grazie, Jacques.

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