
Relazioni
L’età che non esiste
Adolescenza cancellata, desiderio derubricato, soggettività ridotta ad algoritmo. La vita tra infanzia e prestazione è diventata una zona muta.
È la cultura dello scarto. Tutto ciò che non serve viene scartato. Senza pietà. È diventata una regola. Non scritta, ma universale. Se non funziona, eliminalo. Se non produce, cambialo. Se non genera profitto, visibilità, engagement, ignoralo. La logica è spietata e cortese, parla la lingua dell’efficienza, ma agisce come una condanna. Così abbiamo lasciato che l’utile diventasse l’unico criterio di verità. Ma l’umano non abita lì. L’umano si nasconde tra gli oggetti dimenticati. Le parole che non portano a nulla. Le pause che non spiegano. I gesti che non concludono. Una finestra socchiusa che non inquadra nulla. Una panchina che non serve. Un tempo che non produce. È lì che si rivela la presenza. Non nel fare, ma nell’essere. Non nel risultato, ma nel respiro. Non nel calcolo, ma nello spreco. Un tempo sprecato che tiene in vita.
C’era un tempo così, e si chiamava infanzia. Non l’infanzia come paradiso perduto, ma come profezia. Come spazio dove abbiamo amato per la prima volta, senza chiedere nulla in cambio. Come tempo dove il desiderio era puro perché inutile, e per questo reale. Massimo Recalcati sottolinea che impariamo che esiste qualcosa che vale anche se non serve. E forse tutto ciò che ci tiene in piedi, oggi, è solo ciò a cui siamo rimasti fedeli da allora. Non è nostalgia. È fedeltà. Non è romanticismo. È un’etica: la sola che non tradisce.
Siamo diventati consumatori di velocità. Corriamo verso obiettivi che si spostano ogni volta che li sfioriamo. Abbiamo perso la capacità di perderci. Abbiamo dimenticato il valore del tempo che non serve a nulla. Quel tempo che non si giustifica. Che non produce. Che non monetizza. Ma che custodisce.
Eppure, è proprio nella perdita che si deposita la verità. Non una verità che consola. Una verità che pesa. Che resta lì, anche quando tutto il resto viene archiviato. Una carezza data senza motivo. Un fiore nato tra le crepe del cemento. Una poesia scritta per nessuno. Non servono. Ma fondano.
Il mondo le ha catalogate come debolezze. Ma sono queste le forze che resistono. Non le competenze, non le performance. Ma le cose che non servono. Chi continua a farle sta tenendo aperto uno spiraglio. Sta dicendo, senza gridarlo, che esiste ancora uno spazio non colonizzato. Uno spazio dove si può esistere senza giustificarsi. Dove la vita non deve avere una funzione per essere vera.
La verità non serve. Non produce, non risolve, non fidelizza. È spesso un peso inutile. Ma è l’unico fondamento. La cerchiamo solo quando tutto il resto crolla. Ma abbiamo disimparato a portarne il peso. Vogliamo leggerezza, non verità. Ma la leggerezza di oggi è solo anestesia.
L’inutile diventa allora l’unico spazio dove si custodisce un senso. Il solo luogo dove il desiderio non deve essere colmato. Ma può solo vibrare. Come vibrava quando eravamo bambini.
Lì, in quella zona cieca del mondo, nasce una presenza diversa. Non finalizzata. Non strategica. Non performativa. Una presenza nuda. Che non si giustifica. Che non si spiega. Che non serve. Ma c’è. E proprio lì, dove nulla serve, forse si ricomincia.
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