
Tennis
L’attivismo politico di Arthur Ashe
Il giocatore afro-americano fu il primo nero a vincere Wimbledon nel 1975, ma la sua eredità è più politica che tennistica, come dimostra la vicenda del suo impegno contro l’apartheid in Sudafrica
Esattamente 50 anni fa, nella finale di Wimbledon, il 32enne Arthur Ashe inflisse una dura lezione al rampante e antipatico Jimmy Connors. Entrato in campo da sfavorito contro il n. 1 del mondo, che non aveva mai battuto e che non avrebbe più battuto poi, Ashe prevalse per 6-1 6-1 5-7 6-4. Diventò così il primo nero a vincere i Championships, come nel 1970 era stato il primo afro-americano ad aggiudicarsi gli Australian Open e due anni prima gli US Open. Il primo e l’unico. Althea Gibson lo aveva preceduto negli anni ‘50, diventando la prima persona di colore a conquistare uno Slam, ma il solo altro maschio capace di trionfare in un major è stato il francese Yannick Noah, che sconfisse Mats Wilander al Roland Garros del 1983.
Ashe è tuttavia ricordato più per il suo impegno politico e sociale che per i pur notevoli successi sportivi. Fondò la National Junior Tennis League per offrire opportunità educative e sportive a bambini e ragazzi svantaggiati, raccolse denaro per mandare al college la gioventù afro-americana, si oppose al regime razzista sudafricano, difese i diritti dei rifugiati haitiani negli Stati Uniti, fece campagne contro le malattie cardiache e animò la fondazione omonima per la ricerca sull’AIDS, che contrasse a causa di una trasfusione di sangue e che lo uccise nel 1993. Proprio per il suo costante impegno politico, in vita suscitò diverse controversie.
Ashe era nato a Richmond, nella Virginia segregata, da una famiglia modesta ma consapevole delle proprie radici, che risalivano a una schiava senza nome sbarcata nel 1735 a Yorktown da un brigantino proveniente da Liverpool. Presto orfano di madre, fu cresciuto da un padre premuroso ma autoritario, che non tollerava la minima insubordinazione, reclamava il massimo rendimento a scuola e gli impediva di giocare a football americano a causa della corporatura esile.
Il gracile Arthur si distinse nel tennis e ancora ragazzino fu reclutato dal dottor Robert Johnson, un medico di Lynchburg che ambiva a formare una squadra di tennisti neri in grado di competere con i bianchi, appena fosse stato permesso. Johnson ospitava le giovani promesse e in cambio di vitto, alloggio e di tutto il resto, esigeva che tagliassero le siepi, curassero il roseto, spruzzassero pesticida sui meli. Sul campo pretendeva un comportamento impeccabile: niente smargiassate, niente imprecazioni, niente racchette sbattute per terra, niente proteste verso l’arbitro. Quando si arbitravano da soli, che capitava il più delle volte, i ragazzini erano istruiti a ribattere senza fiatare tutte le palle degli avversari fuori di quattro o cinque dita: dovevano passare inosservati, destando l’altrui attenzione solo per la compostezza e l’autocontrollo.
Non sorprende che così educato, Ashe – dopo la laurea in gestione di impresa a UCLA – scegliesse l’accademia militare di West Point, dove sarebbe asceso fino al grado di tenente. Erano tempi di aspre contrapposizioni: il movimento giovanile aveva portato la contestazione dalla famiglia all’intera società, gli afro-americani si erano sollevati contro il razzismo dietro leader radicali come Malcolm X e Muhammad Ali. Ashe appariva non sintonizzato: campione in uno sport di bianchi garbati e benestanti, predicava duro lavoro, moderazione, dialogo e oculato antagonismo. Si trattava della ben nota tradizione del conservatorismo nero, riassumibile nella fede incrollabile nella capacità del sistema democratico e capitalistico di risolvere i problemi della discriminazione razziale. Secondo Ashe, gli afro-americani dovevano strenuamente impegnarsi in un impiego invece di agitarsi in manifestazioni di strada, anteponendo piccoli avanzamenti tangibili a obiettivi irrealistici e pertanto irraggiungibili. Quanto al protagonismo politico di molte star dello sport, Ashe riteneva al contrario che il suo contributo alla causa delle persone di colore dovesse limitarsi al comportamento, sempre ineccepibile, che teneva sui campi di tennis e alle vittorie che vi otteneva.
Fu la surriscaldata atmosfera degli anni ‘60 a spingerlo verso una più decisa militanza, sia a sostegno del movimento per i diritti civili sia in appoggio ai neri del Sudafrica, che dovevano sopportare l’odioso regime dell’apartheid. Nel 1969, Ashe chiese al governo di Pretoria un visto per giocare nel paese, che gli fu negato. Mentre Nelson Mandela languiva nel carcere di Robben Island, Ashe rinfocolò il dibattito sull’alternativa fra dialogo e boicottaggio, mentre il grosso dello schieramento anti-apartheid perorava la causa del completo isolamento del Sudafrica. Tuttavia, la sua mossa accese i riflettori dell’opinione pubblica sulla questione e, per quanto il Sudafrica fosse considerato un baluardo anti-comunista negli anni della Guerra fredda, la Casa Bianca di Richard Nixon appoggiò cautamente l’iniziativa. Il visto fu comunque negato e la vicenda arrivò all’ONU, dove Ashe fu ascoltato dal Comitato Speciale sull’Apartheid.
Già escluso dalle Olimpiadi dal 1968, il Sudafrica fu estromesso anche dalla Coppa Davis: non più tardi del 1970, tutte le maggiori federazioni sportive avevano espulso o sospeso Pretoria da tutte le competizioni internazionali.
Ashe continuò a reclamare l’autorizzazione per giocare il South African Open: voleva vincerlo perché era un torneo prestigioso, voleva toccare con mano cosa fosse l’apartheid e voleva diventare un modello per i giovani neri sudafricani. Il visto gli fu infine accordato nell’ottobre 1973 e per questa decisione il Sudafrica fu riammesso alla Coppa Davis, che l’anno dopo si aggiudicò, anche perché prima l’Argentina e poi l’India in finale si ritirarono per protesta contro il regime razzista – l’Italia invece accettò di giocare la semifinale, che perse per 1-4 a Johannesburg.
Per recarsi in Sudafrica, Ashe chiese che tutti gli stadi dove avrebbe giocato fossero aperti a bianchi e neri e che gli fosse permesso di muoversi liberamente per il paese. Perciò, appena arrivato, visitò la baraccopoli di Soweto, dove ebbe un acceso dibattito con la gioventù nera, secondo la quale stava in realtà legittimando l’apartheid con la sua sola presenza: disse loro di perseguire piccole concessioni che avrebbero aperto la via per maggiori progressi, ma ottenne solo di aumentare la loro rabbia. Tornò ancora gli anni successivi e perciò fu di nuovo criticato. Molti studenti afro-americani lo accusarono di tradimento e di essere uno “zio Tom”, ossia di sottomettersi all’autorità bianca e di minimizzare il razzismo per ottenere vantaggi personali.
Anche a distanza di anni, è arduo stimare il suo reale contributo alla battaglia contro l’apartheid. A lungo Washington si limitò a una condanna retorica nei confronti del Sudafrica, ma i movimenti di opinione che beneficiarono della tranquilla caparbietà di Ashe e che raggiunsero l’apice negli anni ‘80 produssero infine il risultato atteso: anche a causa del clamore suscitato dall’arresto dell’ormai ex-tennista durante una manifestazione all’ambasciata sudafricana a Washington, la questione tornò in auge e nel settembre 1986 il Congresso – contro il veto del presidente Ronald Reagan – approvò la prima legge completa contro l’apartheid, che prevedeva sanzioni economiche e diplomatiche, inclusi divieti di investimento, commercio e viaggi aerei.
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